In Russia, come in tanti altri paesi, sono stati pubblicati numerosi saggi, diari, racconti e romanzi dedicati alla seconda guerra mondiale, ma le Memorie di guerra. Leningrado (1941-1945) di Nikolaj Nikulin, recentemente edite da Guerini per la collana “Narrare la memoria” promossa da Memorial Italia, sono una testimonianza straordinaria, la cui singolarità va ricercata nella figura dell’autore, eminente storico dell’arte di calibro internazionale, curatore delle collezioni della pittura olandese e fiamminga del XV e XVI secolo del museo dell’Ermitage, e in particolare studioso di Bosch e Bruegel.
Nel 1941, a diciotto anni, Nikulin prese parte in prima linea a battaglie estremamente cruente, sostenute dalle unità sovietiche nei pressi della stazione di Pogost’e nel tentativo di fare breccia nella difesa tedesca per porre fine all’assedio di Leningrado. In quei tragici combattimenti in meno di tre mesi morirono più di 30mila soldati. Nikulin incarna in una delle immagini più raccapriccianti e angoscianti del suo racconto l’atroce destino di quei combattenti, mandati a migliaia allo sbaraglio da superiori spesso inetti e cinici: lo sciogliersi della neve al tepore primaverile del 1942 fa emergere dai cumuli, simili a collinette innevate, che si innalzano presso il terrapieno della ferrovia, ammassi di cadaveri stratificati, le cui uniformi rivelano i battaglioni di appartenenza e le diverse fasi dei combattimenti. Il filo conduttore di queste memorie è la volontà di raccontare la verità sulla guerra che è sempre orribile, indipendentemente dalla retorica dei vincitori. E l’altro tratto distintivo, come fa notare la storica Irina Ščerbakova, autrice della prefazione, è la capacità di riflessione che conduce Nikulin a un’osservazione a tutto campo degli avvenimenti narrati, declinata nel tempo: “Non parla soltanto della guerra in sé, ma anche di come viene ricordata, della storia della memoria personale e di tutta la società”.
Le memorie di Nikulin nascono dopo una lunga gestazione che prende l’avvio nel periodo del Disgelo kruscioviano. In Unione Sovietica dopo il XX e soprattutto dopo il XXII Congresso del 1961 è stato permesso alla gente di ricordare, permesso di affermare la propria memoria personale come punto di vista sulla memoria collettiva e di riconquistare alla memoria collettiva ciò che era stato volutamente fatto cadere nell’oblio. La soggettività è una cifra fondamentale per il periodo del Disgelo: nella prosa prevale la narrazione in prima persona, nella poesia il lirismo. In questo contesto culturale, dove predominanti sono le impressioni personali e la valutazione emotiva, era inevitabile che si affermasse un genere come quello delle memorie. Basti pensare a Uomini anni vita di Il’ja Erenburg. È infatti in quel periodo che Nikulin comincia ad appuntare i suoi ricordi, che vanno ad aggiungersi ai diari dei combattimenti scritti a caldo nel 1943 durante la degenza in ospedale.
Nel 1975, quando nel periodo della stagnazione brezhneviana imperversava in Unione Sovietica la retorica della vittoria sul nazismo con le città che si riempivano di enormi monumenti celebrativi, in Nikulin si fa sempre più pressante l’urgenza di liberarsi dal peso dei ricordi che lo tormentava e così inizia a scrivere le sue memorie, dove riversa l’angoscia della sua esperienza della guerra, vista e vissuta in tutta la sua tragicità. La sua narrazione non ha nulla di eroico, dalle sue parole emerge una quotidianità prosaica, dove le azioni belliche vengono condotte con crudeltà nel disprezzo della vita umana, dov’è facile perdere i capisaldi morali, i principi del bene ed è difficile rimanere umani.
Bosch e Bruegel accompagnano Nikulin nella sua scrittura che sembra derivare proprio dal loro immaginario le descrizioni più ripugnanti, rivoltanti e disgustose della guerra e dei comportamenti degli uomini in quei terribili frangenti. Dall’altro lato è proprio la cultura ad aiutarlo a mantenere viva la sua vita spirituale, a ritrovare nel ricordo dell’Ermitage, dei libri e della musica un rifugio dall’orrore e una salvezza dalla perdita di umanità.
Queste memorie composite, dove i ricordi veri e propri si alternano alla loro elaborazione letteraria in una serie di novelle e alle impressioni ricavate dagli incontri con i veterani alla fine degli anni Settanta, sono state scritte con la consapevolezza che non sarebbero mai state pubblicate, perché allora vigeva la censura su tutto ciò che nella narrazione della guerra non corrispondeva alla linea ideologica ufficiale. La pressione e la paura erano così forti da indurre gli autori ad autocensurarsi perfino nel trascrivere in solitudine, per sé stessi, i propri pensieri. Nella postfazione, scritta nel 2007 per la pubblicazione del libro in Russia, Nikulin confessa di essere stato vittima conscia e inconscia di questo stato d’animo, che ha mitigato in parte il suo racconto, impedendogli di descrivere gli orrori della guerra in modo più impietoso e veritiero.
Nel discorso di Nikulin ritornano incessantemente le parole Memoria e Verità, che egli considera gli strumenti più efficaci per rivelare la follia della guerra in tutta la sua crudezza, ma nello stesso tempo conclude amareggiato: “La cosa più terribile è che gli uomini non riescono a vivere senza la guerra. Finita una, si mettono subito a prepararne un’altra…” e le sue parole ci appaiono oggi sinistramente profetiche.
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