RIFORMA PENSIONI. Giovedì è previsto un nuovo incontro dei sindacati con il ministro del Lavoro sul tema delle pensioni. All’ordine del giorno vi sono due argomenti. Uno è la questione di “Opzione donna” il solo che nel primo incontro il Governo si era dichiarato pronto ad esaminare. In proposito, la nuova normativa, che ha stabilito una relazione tra l’età pensionabile della lavoratrice interessata e alcune caratteristiche personali come il numero dei figli, ha sollevato numerose proteste.
Non si tratta di molti casi nel mare magnum delle pensioni (si dice che siano 20mila), ma essendo il problema (assurto agli onori delle cronache televisive con la definizione – impropria ma rievocativa di un passato mediatico (in)glorioso – di “esodate di Opzione donna”) è riuscito a farsi strada nel teatrino della politica e nelle recite a soggetto delle organizzazioni sindacali. Probabilmente c’è un po’ di esagerazione, ma che siano programmati un taglio e quindi una minore spesa lo ha ammesso anche la Relazione tecnica quando ha previsto che nell’anno in corso le lavoratrici che si avvarranno di questa via d’uscita saranno meno di 3mila a fronte delle 20mila dello scorso anno.
Ma che cosa si potrà fare con effetto immediato senza rinviare la modifica alla scadenza di fine anno, nel quadro di quella riforma strutturale annunciata e attesa? In primo luogo, occorrerà trovare un vettore utile (in sede di conversione del Decreto milleproroghe?) e poi si dovranno risistemare le coperture. È compito dei riformisti (“quale sono e fui” copyright Cecco Angiolieri) contribuire a ridurre il danno laddove sono stati commessi errori come – a mio parare – nel “pacchetto pensioni” contenuto nella Legge di bilancio (la prima di “Io sono Giorgia”).
Nell’impianto del “pacchetto pensionistico” di cui alla Legge di bilancio c’è un aspetto rimasto aperto riguardante la definizione dell’incentivo a proseguire il lavoro, senza avvalersi di Quota 103. Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che abbia raggiunto, o raggiunga entro il 31 dicembre 2023, i requisiti per il trattamento pensionistico anticipato posti dalla disciplina transitoria relativa alla cosiddetta Quota 103, ha la facoltà di richiedere al datore di lavoro la corresponsione in proprio favore dell’importo corrispondente alla quota a carico del medesimo dipendente di contribuzione alla gestione pensionistica, con conseguente esclusione del versamento della quota contributiva e del relativo accredito. La definizione delle modalità attuative della norma in esame è demandata a un decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, da emanarsi, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, entro trenta giorni (il termine è al solito ordinatorio) dalla data di entrata in vigore della legge. Poiché le relative modalità (soprattutto per quanto riguarda eventuali aspetti fiscali) possono incidere sui costi e che (nelle previsioni) i possibili utenti sono in numero ridotto (6.500) non è escluso che si possano trovare compensazioni con una revisione di Opzione donna.
È a questo punto che nell’orchestra entreranno in azione, giovedì, gli ottoni per significare il punto più elevato della sinfonia. Qualche minuto dopo il Direttore dà l’avvio al coro della pensione di garanzia che i sindacati continuano a promettere ai giovani di oggi per quando saranno anziani domani, nella convinzione che loro non saranno mai in grado di procurargliela con il lavoro e il versamento dei contributi. A questo proposito – facendo di necessità virtù – ci permettiamo di ricordare la proposta di un amico la cui prematura scomparsa ha privato il dibattito pensionistico di un contributo di eccellenza: Stefano Patriarca. Appena si iniziò a parlare di questo problema, Stefano – allora consulente di palazzo Chigi – in un seminario di partito avanzò una proposta organica, realista e sostenibile, nella quale veniva delineato un meccanismo di pensione di definito trattamento minimo di garanzia. Una delle possibili ipotesi era quella di introdurre anche nel sistema contributivo l’integrazione a un minimo previdenziale come nel retributivo con la seguente struttura: un trattamento pari al minimo allora vigente comprensivo della maggiorazione sociale (circa 650 euro mensili) percepibile all’età di vecchiaia con 20 anni di contributi e crescente per ogni anno di contribuzione successivo al 20° (ad esempio 30 euro al mese per anno con un massimo di 1.000 euro). Questa ipotesi, secondo Patriarca e gli sherpa governativi, avrebbe determinato un tasso di sostituzione per una carriera piena (40 anni di contributi) pari al 65% della retribuzione media netta.
Restava aperto un problema: come raggiungere lunghi periodi di contribuzione per le nuove generazioni. La proposta si basava sul riconoscimento di un trattamento pensionistico obbligatorio articolato secondo due componenti: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, di importo pari all’assegno sociale e rivalutabile secondo le medesime disposizioni, e una pensione calcolata secondo il sistema contributivo. Ciò allo scopo di assicurare, in particolare ai soggetti con minore capacità reddituale e contributiva, trattamenti pensionistici obbligatori complessivi e lordi non inferiori al 60% della retribuzione di riferimento. Infine, l’accesso alla pensione di base era condizionato al possesso dei seguenti requisiti, contributivi e anagrafici: almeno dieci anni di soggiorno legale, anche non continuativo, nel territorio nazionale; almeno dieci anni complessivi di contribuzione effettiva, anche non continuativa, a una o più gestioni di previdenza obbligatoria; la maturazione dei requisiti anagrafici già previsti dalla legge per l’accesso alla pensione contributiva.
In premessa, il piano di Patriarca sottolineava che, per realizzare il nuovo disegno, vi erano alcune precondizioni così riassumibili (le ricordiamo perché ora sembrano dimenticate): contenimento della spesa nel breve e stabilizzazione finanziaria nel medio lungo; miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro; politiche di invecchiamento attivo. Se il sistema non fosse riuscito, infatti, a mantenere un equilibrio (o meglio uno squilibrio sostenibile) nel presente, non ci sarebbe stata – si disse – speranza di un futuro.
Anche adesso, benché la questione sfugga alla comprensione dei sindacati, le condizioni del mercato del lavoro e i trend demografici dovrebbero rappresentare il tapis roulant su cui camminano le prospettive del sistema pensionistico, sia per quanto riguarda la posizione dei singoli che quella della collettività dei lavoratori; le buone pratiche di invecchiamento attivo si accompagnano all’esigenza di allungare le vita lavorativa anche dal lato dell’offerta di lavoro.
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