Nella fitta oscurità di un bosco labirintico, un misterioso viandante, in cerca di riparo per la notte, si imbatte in un imponente castello. Varcata la soglia, predisposto su una tavola che si accinge a radunare altri 15 commensali ospitati nell’imponente cornice del maniero pseudo-rinascimentale, ad attenderlo trova un banchetto che promette di rifocillarlo da ogni fatica.
Comincia così, da uno degli stereotipi narrativi più gettonati di sempre, Il castello dei destini incrociati, romanzo di Italo Calvino che Einaudi diede alle stampe nel 1973. Ma di scontato e prevedibile, in questa vicenda che, come spesso accade nella produzione dello scrittore, strizza l’occhio alla vaghezza delle atmosfere fiabesche, c’è ben poco. E non passa molto tempo prima che il lettore si accorga di trovarsi davanti ad un romanzo dell’illusione. Al trionfo del contrario. Ad un’opera destinata a rivoluzionare la percezione collettiva del prodotto letterario.
Il romanzo di Calvino, infatti, si autoracconta facendo a meno delle parole. O meglio, adoperandone alcune indirette. Perché, una volta accomodatisi al tavolo, gli ospiti del castello si rendono conto di aver perso la facoltà del linguaggio. Forzati da una contingenza inspiegabile, ma al tempo stessi spinti istintivamente a condividere con la comitiva quel paradossale silenzio e a raccontare la storia che li ha condotti a quel preciso istante, possono contare appena, come unico mezzo espressivo, su un mazzo di tarocchi. Uno per uno, allora, iniziano a disporre ordinatamente le carte – e le immagini ad esse annesse – in modo da formare una sequenza di fatti ordinata e logica.
Ma ecco che, mentre ogni icona viene lentamente apposta e svelata agli occhi degli astanti, il fruitore dell’opera si trova progressivamente ingabbiato nella sensazione di assistere ad un vero cortocircuito comunicativo, all’affermarsi di qualcosa che sfiora il surreale. Ogni narratore ha la sensazione di aver infuso un senso chiaro e inequivocabile alla propria disposizione. Tuttavia, l’afasia regnante nella sala da pranzo ha generato l’effetto opposto: ogni commensale, nella solitudine delle sue suggestioni che non possono godere di un confronto, finisce per dare alla storia del compagno di turno un’interpretazione del tutto divergente, inedita, imponderabile. C’è chi sceglie di conferire alle immagini un valore che altri non avevano considerato, c’è chi, invece, sceglie perfino di leggere le tessere in un ordine inventato, capovolto. Tutte le volte che questo accade, come su un binario dotato di infinite deviazioni, il nucleo narrativo originario si frammenta, si divide in sottounità che non smettono di proliferare, di dare vita a nuove combinazioni, a nuove storie, a nuove realtà. C’è spazio persino la ridondanza, per il citazionismo, per la riscrittura di miti sacri e pagani. E ad uno dei suoi più celebri esponenti, il paladino Orlando che fa capolino durante uno dei racconti, è affidato il compito di squadernare ciò che sta accadendo dietro le quinte: “Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro”.
Basterebbe questo condensato di saggezza per descrivere quale sia il più grande merito dell’opera calviniana. Non soltanto quello di aver sottratto all’ombra i meccanismi di funzionamento della creazione letteraria, di aver invitato i lettori all’interno di quel vulcanico laboratorio espressivo in cui ogni storia trova il suo avvio. Ma anche, e soprattutto, quello di aver dato il giusto peso, e la giusta collocazione, alla verità. Del resto, quando ci approcciamo ad un prodotto letterario – e, in fondo, alle questioni più rilevanti della nostra esistenza – ci aspettiamo di ricevere risposte nette, incisive, assolute, totalizzanti. Ci lasciamo inquietare dalla prospettiva del dubbio, rifuggiamo le sfumature e le controversie per paura di impantanarci nei loro sentieri fangosi. Senza realizzare, invece, che la verità non è mai stata, e non potrà mai essere, univoca. È, piuttosto, un segmento parziale di un quadro più ampio e cangiante, il frutto di una catena causale che poteva, in qualsiasi momento del suo svolgimento, deragliare verso altri lidi.
A questa intuizione ci guida Calvino, dilettandoci con le consuete ironia e leggerezza. Ad una consapevolezza che naturalmente deve parte della sua sostanza al pensiero strutturalista, alla cosiddetta teoria della letteratura combinatoria che, un po’ come accade con le sette note e le melodie, aveva intravisto negli elementi tematici ricorrenti della letteratura un inesauribile potenziale d’assemblaggio.
Tra le pieghe della riflessione calviniana, però, c’è un significato ulteriore, che determina lo statuto della narrazione stessa. Ciò che l’autore si sforza di mostrarci è il fascino magnetico dell’affabulazione: il piacere della lettura, l’esperienza del dire e dell’ascolto non sono vincolati ad un percorso di comprensione pre-determinato. L’esperienza letteraria non è partire da un punto A per giungere, nel minor tempo possibile, ad un punto B. È, invece, disponibilità a perdersi nei meandri del racconto, smarrire la direzione per imboccarne mille altre, fare inversione, girare in tondo fino allo sfinimento, per poi ricominciare senza posa e, perché no, senza meta. È accettare il diritto dell’autore alla menzogna, all’omissione, alla reticenza, al palinsesto da rinvenire grattando la superficie.
Perché forse, semplicemente, ciò che prevale è la bellezza del narrare. L’atto in sé, che si declina nei contenuti più disparati. La magia di poter plasmare, nel perimetro limitato di un racconto, la predisposizione senza tempo dell’uomo a concepirsi storia in movimento. Come quel viandante, un po’ rapsodo e un po’ amanuense, in quel castello della fantasia.
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