Il voto regionale non ha spento il dibattito sul Festival di Sanremo e sul destino dei vertici Rai. Qualcosa si è rotto tra Carlo Fuortes e la presidente del Consiglio e la maggioranza ora non nasconde la volontà di cambiare la direzione dell’azienda e sostituire Amadeus e la sua squadra alla guida del Festival del prossimo anno.
Se la vogliamo leggere in politichese, la necessaria premessa è che “questo Festival”, cioè il festival di Amadeus, è stato creato da un governo che tirava nettamente a destra: quando si è trattato di sostituire Claudio Baglioni, eravamo nel 2018, governava il Conte 1 sorretto da una solida maggioranza Lega-M5s. L’esperimento – che evidentemente puntava ad altro – è sfuggito di mano, ma se non ci fosse stata la Lega al governo, Amadeus starebbe ancora a fare i quiz dopo il Tg, perché i salottini radical-chic – che ora lo osannano – lo hanno sempre trattato come uno non all’altezza.
Se vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare, dobbiamo riconoscere che all’epoca c’era qualcuno che ha guardato avanti, facendo in realtà una mera scelta tecnico-creativa. Questa scelta è stata fatta proprio da quella destra su cui adesso gli stessi beneficiari sputacchiano. La sparata di Benigni a difesa della Costituzione (solo pochi anni fa aveva tentato di stravolgerla in compagnia di Renzi) ne è stata la chiara evidenza. La Sanremo di sinistra (stiamo parlando di un “mostro” che digerisce tutto e lo risputa omogeneizzato), che ha fatto esultare la stampa filo-Nazareno, non ha nulla a che vedere con la rivincita del Pd.
La “presa di Sanremo” è tutta opera del terzo polo! Amadeus (che fa bene il direttore artistico e il presentatore, ma non la politica) è tornato nelle mani di Lucio Presta, braccio armato di Matteo Renzi. Presta è il regista della Leopolda, ha comperato e venduto un documentario su Firenze realizzato da Renzi per una cifra sproporzionata. Presta aveva un rapporto privilegiato anche con l’amministratore delegato dell’epoca Salini, anch’egli renziano: con Arcobaleno 3, la sua società, gli aveva formalmente “acquistato” la sua quota del 5% in “Stand By Me”, la società di produzione della Ercolani.
Per fare “quel” festival serviva Amadeus (la cui presenza da sola garantiva la partecipazione di Fiorello) ma bisognava farlo senza passare per Presta e sottostare ai suoi disegni (tra parentesi, nessuno si è chiesto come mai ci ritroviamo Benigni e Morandi, gestiti dalla stessa agenzia). Peraltro, lo stesso Salini, per sottrarsi alle pressioni politiche, aveva tentato senza successo la carta di Cattelan.
La partecipazione al Festival di quest’anno di Mattarella “in forma privata” (quindi da politico) e non “istituzionale” (da vero presidente) è stata la prova generale della prossima “presa di Palazzo Chigi” da parte di un terzo polo a guida renziana che ormai è pronto a sposare la nuova destra, “rubando” al moribondo Pd il ruolo di “garante della democrazia” e a Berlusconi quello di leader di un partito liberale. Meloni è avvertita, il successo alle regionali non è sufficiente a coprire gli scricchiolii della sua maggioranza e le crescenti difficoltà in Europa per colpa di alleati considerati inaffidabili.
L’impresa stavolta non richiede un semplice ribaltone, bensì un cambio di pelle tale che Mattarella, invece di manovrare dal Colle, è stato costretto a scendere all’Ariston per dirigere l’orchestra. Con Renzi in regia. L’unico che non lo ha capito (o forse lo ha capito molto bene e ha tentato in extremis una normalizzazione del Festival in chiave “solo musica, per piacere”) è proprio Matteo Salvini. Il seguito, a questo punto, lo possiamo solo immaginare.
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