Era la sera del 29 gennaio 1951. Tutta la nostra famiglia, padre, madre, tre figli, era raccolta davanti al radiogrammofono che troneggiava in salotto. Il primo Festival della Canzone italiana cominciava alle 22, e fu concesso a tutti – compreso me che avevo sette anni – di stare alzati per l’occasione. Quella sera, un presentatore molto noto all’epoca, Nunzio Filogamo, lanciò per la prima volta nell’etere il suo famoso saluto: “Cari amici vicini e lontani buona sera, ovunque voi siate“. Fu una grande intuizione, perché nel Salone delle Feste di Sanremo c’erano solo 200 persone. Ma Filogamo aveva pensato a tutti gli italiani sparsi per il bel Paese e soprattutto per il mondo. Una mia prozia che viveva a Buenos Aires, quando ritornava a trovarci ogni due anni, ci raccontava che tutta le comunità italiane d’Argentina si riunivano sempre con grande emozione e nostalgia intorno alla radio per seguire il Festival. E così avveniva per tutti gli emigrati del mondo: si sentivano salutati uno per uno come “amici lontani”.
La voce garbata di Filogamo raccontò il festival per quattro anni, perché nel ’55 arrivò la tv e lui non fu ritenuto abbastanza telegenico. Tornò una volta nel ’57 e poi continuò a lavorare alla radio. Con il passare degli anni il Festival della Canzone Italiana cambiava pelle: da concorso di canzoni, si trasformava poco alla volta in un evento in cui le canzoni erano solo uno degli elementi, che attirava per la competizione: si aggiungevano ospiti famosi, attori, comici, cantanti stranieri, mentre gli stessi presentatori venivano scelti tra entertainer come Grillo, Bongiorno, Corrado, Cecchetto, Baudo, Bosè, Dorelli, Fazio, Carrà, Vianello, Clerici, Bonolis, Conti, Panariello, Baglioni, Amadeus.
La durata delle serate si allungava a dismisura, per poter presentare sempre più canzoni accontentando gli appetiti delle case discografiche e raccogliere più pubblicità. Ecco perché occorrevano dei conduttori robot capaci di tenere il ritmo e non prendere una papera per cinque-sei ore filate.
Mi sono sempre chiesto cosa spingesse tanta gente a svenarsi pur di trovare un posto in quel teatro, e restare incollata alla sedia per tante ore. Per poi dimenarsi urlando a ogni sollecitazione del conduttore e dei cantanti. Anche in Rai molti dirigenti si disputavano e si disputano tuttora i posti a disposizione. Quando venni nominato membro del CdA, per quattro anni lasciai sempre ad altri il mio posto e non ci andai mai. Mi dava fastidio l’atmosfera che spingeva a creare scandalo o gossip pur di far crescere l’audience, e mi piacevano sempre meno le canzoni che venivano scelte. Con buona pace di chi ne parla bene. Vero che i gusti son gusti e che ogni epoca ha la sua colonna sonora, ma a me sembra che certi giudizi siano privi della memoria della grande musica che ha fatto la storia del rock e del pop.
Che soddisfazione nel vedere Mengoni vincere la serata delle cover con Let it be dei Beatles, per di più accompagnato da un coro Gospel! Altro che la non-musica di un gruppo creato con una colossale operazione di marketing come i Maneskin.
Nelle ultime edizioni, poi, il Festival è diventato una sorta di Gay Pride dedicato alla promozione della filosofia gender e delle campagne LGBT. I gusti del direttore dell’intrattenimento Coletta sono letteralmente tracimati ovunque, naturalmente all’insegna della parità di genere (in tutti i sensi). Anche nella scelta dei cantanti, del loro look e dei loro comportamenti, vedi una persona oggettivamente disturbata (da sex addiction, per dirla in inglese) come il/la sedicente Rosa Chemical: il fautor* del poliamore, che ha strillato sul palco “viva la libertà, viva il sesso”, brandendo un sex toy. Qui non è proprio il caso né di essere giudicati bacchettoni, né contro la parità di tutti i generi, ma contro il pessimo gusto, anzi il disgusto.
La velenosità dell’operazione “culturale” di Stefano Coletta e dei suoi pari sta nell’aver lardellato i programmi Rai di gay e omosessuali sempre pronti a promuovere ai teleutenti la propria visione del mondo. Va chiarito che il problema non è che un presentatore sia omosessuale, lo era anche il mitico Nunzio Filogamo, così come lo erano Zeffirelli, Lucio Dalla, Paolo Poli e tanti altri, che però non cercavano di convincerci che la loro era una scelta di vita da promuovere con insistenza.
È ovvio che la strabordante presenza di cantanti omo o filo-tali, con relativo look, spinga il pubblico a pensare che la maggioranza della società sia così, mentre l’ultimo sondaggio disponibile dell’Istat afferma che le persone omosessuali sarebbero l’1,6% della popolazione. Poiché l’indagine non è recente, ammettiamo che siano pure il 3%, a voler esagerare. Ciò non significa che non si debba loro il rispetto dovuto a ogni essere umano, a prescindere dalle tendenze di ognuno. Ma è vergognoso far pensare che costituiscano la maggioranza della società, facendo somigliare spesso Sanremo al set di un film a luci rosse. Atteggiamento inoltre assai insultante per i molti omosessuali che ho conosciuto e stimato e che non hanno in mente affatto stivaloni alla coscia, calze a rete, sex toys, o abbigliamento fetish. E questa è una vera e propria forma di discriminazione.
Lo stesso cantante dei Maneskin, che risulta etero, si traveste con mutande di pelle, calze velate e giarrettiere, mentre la bassista/leader Victoria De Angelis si presenta in guêpière, con le stelline sui capezzoli come le spogliarelliste di una volta, contorcendosi sul palco come in preda a convulsioni e coliche addominali, così da mettere in mostra più che può il suo lato b.
Bisogna dire che questa sofisticata operazione di marketing LGBT nel suo complesso funziona, eccome. Interrogando spesso gli studenti ventenni che incontro a lezione in Università, scopro che per loro la cosiddetta fluidità sta diventando un momento normale della vita, poi si vedrà…
È lecito pensare che sia un errore tragico? È ragionevole pensare che promuovendo questi stili di vita, tra un po’ di anni non ci saranno più bambini, che secondo natura nascono solo dall’incontro tra un uomo e una donna? In questo senso ho trovato estremamente vigliacco, sì, proprio vigliacco, il monologo di Chiara Francini nella serata di venerdì. Vigliacco perché è stato commentato come un inno alla maternità mancata, mentre era un concentrato di negatività sulla figura del figlio visto come un ostacolo all’autorealizzazione di una donna moderna presa da altri interessi e impegni. Ritengo che nessuna giovane donna ne possa aver tratto una qualche idea positiva sulla maternità. Questo è solo un esempio del pensiero unico che tracimava da tutti i testi, e che Amadeus a ogni piè sospinto ha giudicato con voce emozionata una espressione di libertà. E che vedremo inevitabilmente e automaticamente diffuso a gogò da conduttori e cantanti ospiti a Domenica In, come a TV Talk e in tutti gli altri contenitori a ogni ora del giorno e della notte.
E veniamo al vero punto dolente: Amadeus. Negli anni mi sono chiesto cosa avesse di speciale un signore così incolto, pessimo studente a scuola (per sua stessa ammissione), diventato oggi il conducator maximus.
Scelto da Cecchetto per la sua abilità nel destreggiarsi con il cazzeggio radiofonico, è poi passato al cazzeggio televisivo, sfoderando le sue doti di instancabile automa della presentazione e della conduzione, assai bravo a recitare i testi degli autori, visto che non sembra essere dotato di un pensiero proprio di un certo interesse. Distillando relativismo etico e pensiero unico da tutti i pori ogni volta che si deve sforzare di toccare un argomento che non sia un cazzeggio. Leggo in queste ore che la presenza del presidente della Repubblica è stata coordinata da Amadeus e da un ex-ballerino che gestisce la più importante agenzia di artisti. Tutto all’oscuro dei vertici Rai, ridotti a meri burattini, o, per non offendere, a comparse.
Come abbiamo fatto a sprofondare cosi? Forse perché, come dicono le ricerche, otto italiani su dieci non capiscono quello che leggono? O forse perché siamo al 58° posto nella classifica della libertà di stampa, e di conseguenza il pensiero critico non circola proprio?
Tutto è così enormemente assurdo, che ho cercato di riflettere sulla situazione del Paese sforzandomi di osservare da lontano l’Italia come se fossi nello spazio.
Così ho avuto una improvvisa intuizione. E mi sono ritrovato dentro a Matrix a dialogare con Morpheus, che mi ha detto: “Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c’è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti. È un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. È questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando…Ti interessa sapere di che si tratta, che cos’è? Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo dinanzi agli occhi, per nasconderti la verità.”
Ora capisco, non può che essere così. Questo spiega il robot Amadeus, gli automi della galleria dell’Ariston che si sbracciano e urlano di approvazione per altri robottini canterini e per ogni scampolo di pensiero unico che “deve” commuoverli. Spiega vertici inesistenti. Ma spiega anche Bill Gates, Klaus Schwab, e Juval Harari, che si augurano di consolidare definitivamente la Matrix trasformando l’umanità in dati rinchiusi all’interno di un computer pilotato con sempre maggiore facilità dalla loro meravigliosa Intelligenza Artificiale.
Che c’entra, direte. C’entra, l’ho appena detto. La stupidità e l’ignoranza che si sta dimostrando a livello globale, è la stessa che permette ai Ferragnez, agli Amadeus, ai Coletta e ai loro sodali e adepti di ritenersi dei maìtre à penser, inquinando le coscienze mantenendoci prigionieri nella Matrix.
Non resta che cercare di scappare dalla gabbia, ribellarsi. Al suono di una musica vera come questa, che può ripulire anima e orecchie dalla molta spazzatura che abbiamo dovuto subire per troppi giorni: Peter Gabriel canta “Don’t give up”. Che significa “Non arrendetevi”
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