Il Tesoro degli Stati Uniti ha concesso una parziale e temporanea interruzione delle sanzioni alla Siria. L’alleggerimento prevede lo sblocco di alcune operazioni di trasferimento di fondi verso la Siria tramite il circuito bancario, per un periodo di sei mesi.
Il fatto è senz’altro positivo, tuttavia l’allentamento delle sanzioni deciso dagli Stati Uniti, nonostante il Tesoro Usa sostenga il contrario e che “i programmi di sanzioni statunitensi contengono già solide esenzioni per gli sforzi umanitari”, non sospende il pacchetto di sanzioni denominate “Caesar Act”, che vieta la ricostruzione del Paese, e le precedenti, che contemplano l’embargo sulle importazioni di petrolio, le restrizioni sugli investimenti, il congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’Ue, colpiscono il settore carburante/petrolio, il settore industriale, il settore agricolo, il settore sanitario, i settori elettricità e trasporti e, infine, i settori dell’istruzione e del turismo. Tra queste restrizioni particolarmente pesanti sono quelle che impediscono il procacciamento di pezzi di ricambio per i macchinari degli ospedali e l’importazione di medicine.
Inoltre, il Caesar Act impedisce alle Ong di aiutare le famiglie e la ricostruzione delle case gravemente danneggiate dal conflitto e permette solo interventi palliativi, come la sostituzione di infissi o piccoli interventi di restauro (è da notare che ancor prima del sisma, l’infrastruttura del Paese è stata distrutta al 60% dalla guerra).
Quindi, a fronte di questa situazione che permane, l’unico vantaggio è che Ong, Onu e governo degli Stati Uniti potranno operare con qualche fondo in più, ma si tratta comunque di stanziamenti di sussistenza che non includono la ricostruzione, né si prefiggono che il Paese riavvii una ripresa autonoma indipendente dagli aiuti esterni. Questo perché – come dice il Centro Studi Internazionali (Cesi) – “la partita della ricostruzione è oggi il nuovo punto di sfogo della competizione regionale per il futuro assetto della Siria, dopo l’esaurimento delle offensive militari”. Non solo. È paradossale che, a fronte di un alleggerimento dell’embargo in questa misura insufficiente, gli Stati Uniti proseguiranno a tenere occupato militarmente il nord della Siria, continuando a sfruttare i pozzi petroliferi ed a lucrare dei proventi della vendita del petrolio siriano in misura infinitamente superiore agli aiuti che manderanno.
Per questo le sanzioni stentano ad essere cancellate. I cosiddetti “Paesi amici della Siria”, ovvero quegli Stati coalizzati in una lega anti-Assad – che hanno partecipato all’operazione Tymber Sycamore finalizzata ad un regime change in Siria –, temono che, autorizzando il governo siriano alla gestione diretta degli aiuti umanitari post-sisma e sollevando definitivamente l’embargo, la Siria possa respirare e risorgere come soggetto politico regionale indipendente. Ciò renderebbe vano lo sforzo per tenere Assad e il popolo siriano sott’acqua, fino a soffocarli completamente. La posizione degli Usa e della Ue è infatti quella di far rientrare la Siria sotto il completo controllo occidentale attraverso “i ribelli” di Idlib (i terroristi del gruppo Tharir al Sham, ex al Qaeda) e le milizie curde che esercitano l’amministrazione per procura del fertile territorio di Jazira a nord dell’Eufrate.
Il dilemma che trattiene l’Occidente dal “fare la cosa giusta” e cessare completamente le inique sanzioni è tutto qui e, naturalmente, non è moralmente valido. Questa valutazione coincide con quella della maggior parte dei religiosi siriani, alcuni dei quali ho avuto modo di sentire e conoscere, come il vescovo emerito di Aleppo mons. Abou Khazen e il suo predecessore, mons. Giuseppe Nazzaro. Tutti hanno chiesto innumerevoli volte la cessazione delle sanzioni alla Siria. La stessa cosa hanno fatto immediatamente dopo il sisma il patriarca cattolico greco-melkita Joseph Absi, il patriarca siro-ortodosso Ignatius Aphrem II e il patriarca greco-ortodosso Giovanni X. Analoga sollecitazione è stata rappresentata dal custode di Terra Santa padre Francesco Patton: “Le sanzioni sono disumane e immorali. Trovo scandaloso che in un momento del genere, così tragico, non si sia capaci di rimuovere o sospendere le sanzioni”, ha detto. Seguono gli appelli delle monache trappiste siriane e da tanti altri religiosi, come padre Bedros Marashlian e di Ong come Avsi.
Ma non si tratta solo di mettere in atto una retta morale: la Siria è un membro delle Nazioni Unite, queste misure unilaterali coercitive nei confronti del popolo siriano sono una palese violazione della Carta delle Nazioni Unite. La stessa Organizzazione l’anno scorso ha chiesto la cessazione del regime sanzionatorio verso la Siria: “Sono colpita dalla pervasività dei diritti umani e dall’impatto umanitario delle misure coercitive unilaterali imposte alla Siria e dal totale isolamento economico e finanziario di un Paese il cui popolo sta lottando per ricostruirsi una vita dignitosa, dopo la decennale guerra”, ha detto la relatrice speciale delle Nazioni Unite Alena Douhan, ma finora senza esito.
Le giustificazioni addotte al mantenimento delle sanzioni sono pietose: si continua a sostenere, mentendo, che sono messe in campo per “proteggere il popolo siriano dalla repressione del regime di Assad”. Ma guerre e sanzioni raramente vengono messe in atto per “motivi umanitari”, molto più spesso sono decise per motivi di egemonia economica e politica. Naturalmente, la narrativa della “difesa dei diritti umani” potrà andare avanti fino a che i media continueranno a sostenerla e non c’è segno che questo cessi.
Da parte sua, il governo siriano ha definito fuorviante la decisione dell’amministrazione statunitense di “congelare parzialmente e temporaneamente alcune misure omicide, coercitive e unilaterali” imposte al popolo siriano ed affermato che il provvedimento “non è altro che una ripetizione di precedenti decisioni formali volte solo a dare una falsa impressione di umanesimo”.
La domanda cruciale allora è: fino a che punto si proseguirà con l’embargo e con la rottura dei rapporti con la Siria? Si prenderà l’occasione dell’estremo stato di bisogno della popolazione (esasperata ancor più dal sisma), per cessare di fatto lo stato di guerra contro la Siria e mettere in campo un’equa riconciliazione? Oppure si dirà che malattie, come colera (è già in corso un’epidemia) e freddo uccidono per colpa di Assad? Se si continuerà in questo senso non ne sarei sorpreso ma voglio pensare che non sarà più così. Le circostanze attuali, che impediscono ormai biologicamente la sopravvivenza di almeno un terzo della popolazione, non concedono più di anteporre “se” o “ma” e chiedono cambiamenti radicali. Non può essere più sufficiente l’alibi del male dell’altro per giustificare azioni che peggiorano costantemente la vita delle persone.
L’atteggiamento occidentale verso la Siria muterà, la guerra ibrida ancora in corso cesserà? È presto per dirlo. Sì, alcuni segnali positivi ci sono, sono partiti dall’Italia due aerei militari pieni di aiuti sanitari alla volta di Beirut, destinati in Siria. Questa può essere la giusta occasione per sciogliere anche i nodi politici. Però allo stato attuale questo è solo auspicabile, non è ancora possibile dare un giudizio esaustivo ed anticipare il futuro.
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