Marco Martinelli, lo spettacolo che debutterà il 3 marzo al Teatro Oscar di Milano nasce da una proposta che ti lanciarono, ormai dieci anni fa, Gabriele Allevi e Luca Doninelli. È comprensibile che chi l’ha avuto come amico e maestro oggi nutra il desiderio di celebrare il centenario di Giovanni Testori. Anche per me, che l’ho scoperto prima sui libri e poi attraverso i racconti di Luca, di Soffiantini, Frangi, Bonacina, ormai Testori ha assunto i tratti di quei nonni o quei bisnonni che magari hai visto solo in alcune vecchie foto incorniciate, ma di cui ti hanno raccontato di tutto, dagli aneddoti più stravaganti alle avventure più impensabili, e che in qualche modo continuano a farti compagnia. È parte della storia degli Incamminati. Però, come sempre, c’è un rischio: quello di cullarsi nella nostalgia, o peggio, nella fantasia. Per quanto riguarda te ed Ermanna (Montanari, ndr), quali sono le ragioni che vi hanno spinto ad accettare questa proposta? Chi è stato, per voi, Giovanni Testori?
Le ragioni sono le stesse che ci hanno fatto dire “sì” a Gabriele e Luca dieci anni fa. E sono anche le stesse di 40 anni fa, quando Testori pubblicava gli articoli sul Corriere della Sera. Tutto quello che ha scritto Giovanni è ancora oggi di un’importanza cruciale. L’Italia in cui viviamo non è più la stessa: un tempo, figure come Testori, Pasolini o la Morante potevano scrivere articoli sulla terza pagina di un grande quotidiano e suscitare un dibattito. Ora a far discutere sono i Fedez e le Ferragni. Siamo sommersi dai social, dai cinguettii. E se consideriamo i grandi numeri, il cosiddetto mainstream, a ricordare Giovanni Testori siamo di fatto in pochi. Del resto, già Leopardi denunciava che la Moda è sorella della Morte. Noi qui stiamo, e teniamo saldo il testimone. Nella compagnia degli Incamminati ci sono persone che – a differenza di me ed Ermanna – hanno proprio convissuto con Testori, respirando una familiarità di cui noi (che l’abbiamo incontrato solo un paio di volte) non abbiamo avuto l’occasione. Eppure, è stato fin da sempre un astro della nostra costellazione: ci folgorava nell’oscurità del cielo.
Parliamo del titolo dello spettacolo: A te come te. Cosa significa?
È un appello di Testori. Più precisamente, sono le parole che in uno dei suoi articoli del Corriere rivolge a un giovane matricida: “io parlo a te come te”. Trovo che sia un’espressione santa: come a dire “eccoci, siamo io e te, ti parlo i miei occhi nei tuoi”. Il nostro desiderio è quello di poterci rivolgere così allo spettatore: fargli percepire che non stiamo parlando a un uditorio generico, ma a lui, proprio a lui, in quanto persona.
Per avvicinarvi a Testori avete scelto una via inedita: lo spettacolo che debutterà all’Oscar non è la messinscena di un’opera che Testori ha scritto per il teatro, ma l’esito di un corpo a corpo con tre articoli di giornale pubblicati tra il ’79 e l’80. Mi viene in mente una distinzione che Doninelli ha registrato nelle sue Conversazioni con Testori, tra parole che godono dell’essere scritte ed altre destinate fatalmente – e fetalmente – a uscire dalla bocca: in queste ultime – sosteneva Testori – c’è come uno struggimento che le spinge a farsi voce, a diventare grido, espressione di un bisogno. Come sono le parole su cui vi siete trovati a lavorare? Quali strumenti, quali strategie avete impiegato per “incarnare” sul palco la parola giornalistica di Testori?
Lavorare su testi giornalistici rappresenta, sì, una sfida non facile. Le opere teatrali di Testori sono un miracolo linguistico, hanno una potenza e una recitabilità senza pari: e questo perché, prima di affidarli a Franco Branciaroli o a chiunque altro, Giovanni se li ruminava in bocca i suoi versi, se li masticava e rimasticava, fino a dar loro la forma che conosciamo. Le parole con cui abbiamo avuto a che fare noi invece hanno una direzione e un carattere differenti: sono a tutti gli effetti degli articoli di giornale. Di conseguenza, la scommessa per me ed Ermanna è quella di mantenere una temperatura alta, poetica, del dettato. Ritengo che questo sia possibile grazie alla vocalità unica di Ermanna, che tutto sa trasfigurare. È il suo dono: può farsi sibilo della nebbia, raglio d’asino, voce di antichi come Dante o suoi contemporanei come Testori, Doninelli o il sottoscritto. È il suo dono, la sua sensibilità sciamanica. C’è poi un’assoluta novità nel lavoro che presenteremo al Teatro Oscar: al fianco di Ermanna, sulla scena, ci sarà Serena Abrami, splendida cantante e musicista, un’amicizia nata in questi ultimi anni. Con lei abbiamo costruito una partitura di testi antichi, in aramaico e armeno, canti religiosi e popolari, che vanno a intarsiarsi sulla voce di Ermanna. Per il resto, la struttura scenica sarà quella spoglia, essenziale, di una lettura-concerto. L’unico simbolo che vogliamo proporre sono delle cuffie indossate da Ermanna e Serena, quasi come se si trovassero in una sala di registrazione o in uno studio della radio: come se volessero mandare dei messaggi via etere, affidando le pagine di Testori a qualcuno di lontano, che le porterà avanti a sua volta.
Mi vengono in mente dei versi di Rilke: “Pur ignorando il nostro posto vero, / nell’azione un reale Rapporto ci orienta. / Le antenne sentono altre antenne, / e messaggi attraversano le vuote lontananze” (I sonetti a Orfeo, I, XII). A proposito della parola giornalistica che si fa voce, l’immagine delle cuffie mi suggerisce anche un’altra fantasticheria, se me lo concedi, un po’ più pop: pensi che se fosse nato mezzo secolo più tardi, Testori avrebbe realizzato dei podcast piuttosto che articoli di giornale?
(ride) Chi può dirlo? Siamo noi ora che dobbiamo raccogliere il testimone e sperimentare. Per quanto ci riguarda, abbiamo provato a farlo con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Nell’epilogo dello spettacolo c’è un’ampia sezione che, tra le altre cose, ripropone i versi della Mater Strangosciàs: è l’ultimo capolavoro di Testori, un’invenzione potente che riprende la tradizione linguistica della sua terra. Ed è anche il suo lascito di speranza che si tramanda a noi.
Questo mi colpisce: parli di speranza, ma l’oggetto dello spettacolo sembra andare esattamente nella direzione opposta. Nei tre articoli che avete scelto emerge un filo rosso ben preciso: troviamo l’omicidio di una bambina, uccisa in un supermercato per la catenina d’oro che portava al collo; una madre assassinata dal figlio; e infine l’appello di Testori allo Stato italiano per una legge che difenda le donne dalle violenze. Non sono simboli: sono fatti di cronaca vera. Avete incontrato un Testori che di fronte all’indifferenza generale sceglie di affondare lo sguardo nella notte dell’umano, addentrandosi in avvenimenti che squarciano la solidità dei nostri orizzonti come ferite insanabili. Eppure, allo stesso tempo, nella presentazione del lavoro affermi che di fronte a questi orrori Testori “continua a cantare la maestà della vita”. Com’è possibile?
È la “speranza bambina” di cui scrisse anche Charles Péguy (Il portico del mistero della seconda virtù): quella speranza irriducibile che stupisce Dio molto più della fede e della carità. Il cristianesimo è quella speranza: c’è il dolore della Croce, il sepolcro vuoto, e poi la Resurrezione. Il lampo inatteso. L’ultima parola di Testori non poteva che essere di speranza – diversa in questo dall’antro cupo, la tragedia senza scampo dell’ultimo Pasolini, il Salò o le 120 giornate di Sodoma. Testori e Pasolini sotto tantissimi aspetti si assomigliavano, venivano chiamati “i nipotini di Gadda”, per certi aspetti erano quasi gemelli. La differenza è che Testori, come Dante, non resta prigioniero della “selva oscura”: si è affidato a Cristo, “scandalo e follia”, luce nelle tenebre.
Per concludere, concedimi una provocazione. Torno sulle Conversazioni, dove Testori parlando del mondo dello spettacolo si scaglia contro la finzione e rivendica un teatro “realista”, vale a dire un teatro che sia “luogo d’avvenimento”. Ora, noi siamo reduci di una settimana di Sanremo: volenti o nolenti siamo stati bombardati dalle notizie del Festival che, nei telegiornali della Rai, si contendevano lo spazio con la guerra in Ucraina e il terremoto in Turchia e in Siria. L’impressione è che da un lato abbiamo finzioni scintillanti e autoreferenziali, dall’altro veri e propri pugni nello stomaco che non ammettono digestioni razionalizzanti. Come interviene in questo panorama la proposta del teatro?
Massacri e lustrini, è come dici tu. E i secondi per dimenticare i primi, per voltare pagina, per anestetizzarci, se no è troppa fatica sopravvivere. Di fronte al tripudio della “superficialità obbligatoria”, il dio che noi teatranti onoriamo, Dioniso, la “paroletta presa in prestito dai Greci”, come scriveva il giovane Nietzsche, può offrire la sua antichità decrepita, i suoi duemilacinquecento anni di storia. E al contempo Dioniso è il dio infante, i bambini per primi ce lo manifestano, ne sono i primi custodi. Tocca allora a noi sollevare qualche dubbio, qualche interrogazione: mostrare la violenza per quello che è. La nostra vocazione è questa: continuare a far luce attraverso la povera carne martoriata e i suoi “desideri infiniti”. E ancor di più, restare amici.
Amici? Anche con lo spettatore seduto in quindicesima fila?
Sì, anche con lo spettatore in quindicesima fila. Noi delle Albe, come sai bene, facciamo di tutto per parlare “a te come te” anche allo spettatore della quindicesima fila. Per annullare quella distanza. Per farci luogo, farci coro. È sempre quello l’obiettivo di un gioioso faticare: penso alle “chiamate pubbliche” con cui abbiamo messo in scena la Divina Commedia, coinvolgendo l’intera città di Ravenna. Eravamo in centinaia e centinaia ogni giorno, a saltare, a cantare, a danzare per far emergere l’inferno, il purgatorio e il paradiso che ognuno di noi si porta dentro, l’attore come lo spettatore della quindicesima fila.
(Gianmarco Bizzarri)
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