Essere aiutati a leggere il proprio tempo da nuove prospettive è sempre interessante. Un significativo contributo in questo senso è dato dal volume di Olivier Roy, professore all’Istituto universitario europeo di Firenze, politologo e studioso delle culture, L’aplatissement du monde. La crise de la culture et l’empire des normes (Seuil 2022, di prossima pubblicazione presso Feltrinelli). Esso sostiene, in sintesi, che oggi non viviamo un cambiamento culturale, come è accaduto tante volte in passato (caduta dell’Impero romano, Rivoluzione francese), ma, per la prima volta nella storia, una vera e propria crisi della cultura da cui non sembra facile uscire. Essendo venuto meno quel terreno comune che è dato tradizionalmente dalla cultura, che è un mondo di contesti impliciti, per poter convivere fra diverse sensibilità occorre non lasciare nulla d’implicito, esplicitare tutto, ricorrere a una molteplicità di regole, a un conformismo delle pratiche che appesantisce la vita.
Gli esempi sono innumerevoli: la preoccupazione ossessiva di usare i pronomi femminili e maschili, l’uso di emoticon per chiarire il senso delle proprie affermazioni (come “sto per fare una battuta”), l’attenzione a non ferire, a non ironizzare troppo, in genere il timore di urtare la suscettibilità di qualcuno. Inoltre, sul piano della comunicazione e della ricerca, mentre il latino lingua universale era portatore di una cultura, oggi l’inglese non è più connesso a una particolare cultura. Tutti gli interlocutori parlano una lingua povera (un inglese di 1500 parole). Ha luogo, quindi, una deculturalizzazione della comunicazione. Di qui quel senso di “appiattimento del mondo” che dà il titolo al volume.
Roy si chiede: come fare cultura oggi, come ricostruire un legame sociale che sia fondato su un immaginario condiviso, come ritrovare una dimensione collettiva? Un conformismo delle pratiche non è certo sufficiente. Egli individua l’origine di questa posizione nella visione ottimistica dell’individuo desiderante e senza legami stabili propria degli anni post ’68. Alla sua base vi sono pure il neoliberismo della globalizzazione (già T.L. Friedman parlava a questo proposito di “appiattimento”) e il mondo virtuale e autoreferenziale di Internet. Ma i sistemi normativi e burocratici che conseguono a questa conclamata esaltazione della libertà per permettere un rapporto fra gli umani, disumanizzano l’individuo, trattandolo come se fosse infantile, incapace di comprendere. Essi lo presuppongono predatore della terra, degli animali suoi simili. Come non essere colpiti da un tale contrasto tra l’ottimismo delle premesse e il pessimismo delle conclusioni? Non c’è più l’utopia all’orizzonte, ma l’ecologia profonda che non attribuisce un diverso valore e status morale agli individui in base alla loro specie di appartenenza. Si assiste, così, alla scomparsa fantasticata o perfino desiderata dell’umano che coincide con una crisi dell’umanesimo (pp. 230-231).
Oggi si esaltano certo i valori della laicità, ma si è incapaci di dare loro un contenuto a parte il riferimento seducente alla tolleranza (p. 218). Assumendo una postura progressista, il neoliberismo evita tuttavia ogni riflessione sulle ragioni strutturali delle discriminazioni, a cominciare da quelle razziali. Esso attribuisce il razzismo, il machismo, la discriminazione in genere ad una colpa morale le cui cause sarebbero i cattivi pensieri o le pulsioni degli individui.
Inoltre l’autonomia della sessualità nei riguardi della cultura comporta una brutalizzazione della relazione fra i sessi, la crisi della galanteria in nome dell’egualitarismo. Quando viene meno un codice culturale della sessualità occorre sostituirlo con un nuovo codice, questa volta esplicito (p. 159). L’emoji giapponese esprime letteralmente un’emozione piatta, cioè non interpretabile, non ambiguamente comprensibile da ognuno; ma si tratta di un’emozione allora? (p. 142). L’incomprensione dell’implicito, la precisione maniacale nell’uso dei termini, la conformità tra le parole e le cose sembrano rendere oggi gli autistici i più atti a dominare la tecnica della comunicazione. Ci si aspetta che l’uomo dica tutto e pubblicamente. Ma il non detto, l’ineffabile è, invece, al cuore della nozione di umanità.
Nel complesso quello di Roy è un saggio vivace e critico, che, contrariamente alla denuncia antimoderna dell’individualismo, si preoccupa della facilità con cui si accetta l’estensione del dominio della norma. Ma si potrebbe notare che accorgersi di questi limiti significa in certa misura esserne già fuori. Si direbbe che, più che proporre altre regole per difendersi dalla violenza anche solo verbale oppure invocare un impossibile ritorno al passato, occorra rafforzare il senso della propria umanità, ricostruire gradualmente una cultura a partire da un lavoro di riappropriazione di sé stessi.
A questo servono i buoni rapporti con gli altri. Attraverso internet s’incontrano solo persone che ci assomigliano e che partecipano della nostra stessa identità. Nella vita vera s’incontrano persone che non ci assomigliano. Occorre voler uscire dalla bolla del virtuale e ricreare il legame sociale. Le comunità plurali, non unificate da una comune identità e suscettibilità, ma da fattori assai più solidi, perché attingono a quella dimensione umana che tutti accomuna e che ci fa sentire a casa nel mondo, sono come e più di prima fondamentali. E forse, radicati in esse, si potrà anche ironizzare con sorridente levità su certi aspetti del nostro tempo.
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