Il tema dell’accoglienza costituisce l’argomento di due tragedie greche dallo stesso titolo, Le Supplici di Eschilo e di Euripide. La prima è ambientata in una Grecia remota nel tempo e storicamente irrealistica, un regno unitario guidato dal re Pelasgo ma soggetto alle decisioni democratiche dell’assemblea popolare. Improvvisamente vi giunge una nave dall’Egitto e ne sbarca una famiglia di fuggiaschi, Danao e le figlie: si presentano come esuli bisognosi di aiuto e protezione contro i nemici che li inseguono.
Pelasgo è turbato, sia per il rischio di accogliere e garantire difesa contro nemici pericolosi, sia per l’estraneità di questa gente così diversa dalla sua: “Indossa vesti non elleniche, si pavoneggia in pepli e veli barbari: questo non è l’abbigliamento delle donne argive. Siete molto più simili a donne libiche e per nulla a donne del luogo. Il Nilo potrebbe nutrire una tale pianta; e ho sentito dire che vi sono delle indiane nomadi che abitano una regione vicina agli Etiopi”. Le stesse ragazze rilevano il colore bruno della loro pelle, “scura stirpe colpita dal sole”.
C’è però nella tradizione più antica di entrambi i popoli un’antenata comune, Iò sposa di Zeus: in suo nome, e nel nome di Zeus protettore dei supplici, viene chiesta l’accoglienza.
Nuovamente si rileva la differenza di criteri ed usanze fra i nuovi arrivati e la terra in cui sono giunti: di fronte a Pelasgo che dice “Io non posso effettuare promesse se non dopo aver comunicato questi fatti a tutti i cittadini”, sorge lo stupore che nasce da un’esperienza di potere assoluto: “Ma tu sei la città, tu rappresenti il popolo, capo non soggetto a giudizio, con la tua volontà che decide da sola”. Ma Pelasgo si reca con Danao all’assemblea per sottoporle la decisione, e questa all’unanimità vota di accettare il rischio dell’accoglienza.
Anche la tragedia di Euripide è ambientata in Grecia, nella città sacra di Eleusi, al tempo di Teseo re d’Atene. Le supplici sono mogli e madri di un esercito di sconfitti, venute a chiedere aiuto per riavere i corpi da seppellire dei loro parenti uccisi: infatti la città vincitrice, Tebe, rifiuta di restituire i resti degli aggressori. Di fronte alla perplessità di Teseo, che giudica colpevole l’esercito aggressore, giusta la sconfitta, comprensibile la ritorsione dei vincitori e pericoloso lo schierarsi dalla parte perdente, sua madre Etra si pone dalla parte delle supplici in nome delle dèe di Eleusi, Demetra e Kore, e della tradizione ateniese di accoglienza: “Anzitutto, figlio, ti esorto a badare di non sbagliare disprezzando gli dèi”. Lo spinge quindi, secondo la tradizione di aiuto propria di Atene, ad opporsi a “uomini violenti che impediscono ai morti di ottenere tomba e onori funebri e sovvertono le usanze di tutta la Grecia”.
Nell’ultima tragedia di Sofocle, Edipo a Colono, è invece Teseo stesso ad accogliere entro i confini della città il vecchio Edipo, esule e proscritto dalla sua patria in quanto reo di gravi azioni: secondo la concezione più arcaica, infatti, anche l’azione involontaria rende chi la compie colpevole e portatore di contagio in ogni luogo in cui si rechi. Così Edipo è andato errando di terra in terra, e anche nell’ultima sosta, la cittadina di Colono che fa parte della grande Atene, è guardato con orrore dai vecchi del luogo, certi di essere contaminati dalla sua presenza.
Ma come Edipo nella sua vecchiaia è giunto ad accettare se stesso e la volontà degli dèi, così il re Teseo non esita a superare gli antichi pregiudizi, fino ad accompagnare di persona l’esule nel luogo misterioso del suo ultimo destino.
C’è anche un altro tipo di accoglienza, l’ospitalità nella propria casa: fra ospitante e ospitato si crea un legame tale da costituire un impegno sacro. Ce lo ricorda per primo Omero in un passo dell’Iliade: quando il greco Diomede e Glauco, alleato dei Troiani, scoprono che fra i loro antenati c’erano vincoli di ospitalità, decidono di non combattere più fra loro, anzi di scambiarsi le armi per riconoscersi ed evitarsi in battaglia; del resto quando l’antenato di Glauco, Bellerofonte, era stato mandato presso il re di Licia per essere ucciso, una volta ospitato non era stato più possibile ucciderlo, ma anzi era stato onorato e accolto come genero.
Anche nell’Odissea l’onore dell’ospite è tema ricorrente, tanto che Telemaco si rende conto della sua condizione di principe disprezzato e trascurato proprio accorgendosi che la sua casa non è in grado di dare ospitalità. C’è un particolare motivo per cui l’accoglienza dell’ospite è sacra: potrebbe essere un dio.
A questo tipo di vicenda appartiene il mito di Filemone e Bauci, raccontato con toni fiabeschi nelle Metamorfosi di Ovidio. Giove e Mercurio scendono sulla terra in vesti umane: “A mille case si avvicinarono chiedendo un posto e riposo, mille case restarono chiuse e sbarrate”. Li accoglie solo la povera casa di due vecchi sposi, che si danno da fare per onorare gli ospiti, sistemando alla meglio la tavola e preparando un modesto cibo. Rimangono però turbati vedendo che il vino non diminuisce e sospettano la presenza divina. Gli dèi allora si rivelano e trasformano la capanna in un tempio, chiedendo ai due sposi di esprimere un desiderio: i due chiedono di restare come custodi del tempio e alla fine di morire insieme.
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