Nel dibattito sul suicidio assistito ha colpito molto il caso di due donne che in Belgio hanno chiesto e ottenuto di porre fine alla loro vita per “sofferenza psichiatrica insopportabile e irreversibile”.
Anche se per ora si tratta di pochi casi, apparentemente marginali rispetto alla maggioranza delle richieste di eutanasia, l’aver posto in primo piano la “sofferenza psichiatrica insopportabile e irreversibile” come motivazione per ottenere un vero e proprio suicidio assistito rende necessario e opportuno attivare una nuova riflessione su questo tema. Quale relazione c’è tra violenza ed eutanasia?
La legge sull’eutanasia in Belgio
In Belgio, nel 2002, è entrata in vigore la legge sull’eutanasia, legge che in Italia non esiste ancora, nonostante le forti pressioni che alcuni partiti esercitano da diverse legislature.
Nel 2002 furono varate altre due leggi che modificarono profondamente il contesto medico: una di iniziativa parlamentare relativa alle cure palliative e l’altra, di iniziativa governativa, sui diritti dei pazienti. In Italia esistono due leggi analoghe, la legge 38/2010, che definisce le cure palliative diritto, inviolabile di ogni cittadino, e la legge 219/2017 sulle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
In tutte queste leggi il principio guida è il rispetto dell’autonomia e della dignità della persona, ma non sempre è facile capire fin dove possa arrivare questa autonomia e se di fatto ci si possa spingere fino a chiedere e ottenere l’eutanasia. Cosa esplicitamente esclusa dalle leggi attualmente in vigore in Italia. Secondo la legge belga per ottenere l’eutanasia devono essere soddisfatte tre condizioni.
La prima, fondamentale, è la domanda del paziente. Una domanda volontaria e reiterata nel tempo. “Volontaria” nel senso che la persona è stata ben informata e che non ci sono pressioni esterne. La seconda condizione è che il paziente dev’essere affetto da una patologia grave e incurabile; mentre la terza condizione riguarda le sofferenze causate dalla malattia, ma nella legge la sofferenza esistenziale non è contemplata.
La legge non esige che la persona che chiede l’eutanasia sia in fase terminale. Ogni caso va esaminato in funzione della persona, della patologia, del contesto. Non esiste una risposta standardizzata. La legge è lì per dare un quadro di riferimento generale. Nel 2014 la legge ha esteso l’eutanasia anche ai minori; anche in questo caso è il paziente che deve fare la richiesta: i genitori non possono presentarla al posto dei figli, ma il loro consenso è indispensabile.
Sono passati quindi oltre vent’anni da quando il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, diventando uno dei primi Paesi al mondo con una regolamentazione in materia e permettendo l’accesso al fine vita anche in caso di “sofferenza psichiatrica insopportabile e irreversibile”.
Ed è sulla base di questo riferimento normativo che due donne, per ragioni diversissime, hanno chiesto e ottenuto di poter ottenere l’eutanasia. Entrambe avevano fatto esperienza di violenza: una in modo attivo, l’altra in modo passivo. La violenza ha generato in entrambe una sofferenza insopportabile. Il punto è capire in che rapporto stanno tra loro eutanasia e violenza.
Nathalie e Geneviève
Nathalie Huygens, cinquantenne madre di due figli, nonostante le terapie e l’assistenza ricevuta, non è mai riuscita a riprendersi dal trauma di uno stupro subito nel 2016, andando incontro ad attacchi di panico, crisi d’ansia e un tentativo di suicidio. “Ho lottato per uscire da quello che avevo subito ma alla fine mi sono resa conto che una parte di me era morta”, ha detto. I medici hanno evidenziato il calvario progressivo della donna, che non le ha più permesso di avere la vita di prima. Nathalie ha dimostrato di non riuscire più a sopportare il peso di una sofferenza fisica e psicologica costante. Ogni istante per lei era diventato insopportabile e insostenibile, risultato di una condizione patologica, grave e incurabile.
Geneviève Lhermitte, di 56 anni, il 28 febbraio 2007 uccise a Nivelles i suoi cinque figli che avevano tra i 3 e i 14 anni, e poi tentò di togliersi la vita; fu condannata all’ergastolo nel 2008 e venne trasferita in un ospedale psichiatrico nel 2019. Il suo gesto sconvolse il piccolo centro di Nivelles, in Belgio. Per occuparsi della famiglia aveva lasciato il lavoro di insegnante e soffriva di una forte depressione. Da sei anni era in cura da uno psichiatra, ma non ha mai dimenticato quei momenti drammatici in cui i suoi figli erano morti per mano sua. Ha chiesto e ottenuto l’eutanasia “per sofferenza psicologica irreversibile”. È morta nell’anniversario del delitto, dopo aver chiesto e ottenuto l’eutanasia.
Due donne hanno chiesto di morire “per sofferenza psicologica irreversibile”: una è vittima di una grave violenza sessuale, l’altra è responsabile della violenza esercitata sui figli. Una violenza subita da un estraneo per Nathalie e una violenza esercitata sui propri figli per Genevieve, due facce diverse della violenza, che hanno prodotto per entrambe una sofferenza psicologica insopportabile ed irreversibile. Talmente grave da spingerle a preferire la morte, come se qualcosa fosse già morto dentro di loro, nel momento della violenza subita ed agita.
Entrambe le decisioni prese dai medici in Belgio stanno facendo discutere e hanno riaperto il dibattito sul fine vita e sui criteri per permetterlo.
L’estrema pena e il continuo patimento che la violenza ha generato in entrambe le donne negli ultimi anni ha suscitato un vissuto talmente devastante da non consentire a nessuna di loro di uscire dallo stato di prostrazione profonda nonostante tutte le terapie. Per questo hanno scelto la morte, sotto forma di eutanasia, come se solo la morte potesse annullare la sofferenza prodotta dalla violenza di cui avevano fatto una drammatica esperienza, tanto da non poter più vivere con quella sofferenza nel cuore.
Eutanasia e violenza
L’eutanasia appare in questi due casi come una forma di violenza che dovrebbe “curare”, nel senso di cancellare in modo definitivo, irreversibile, la violenza che ha generato in entrambe le donne un sapore di morte insopportabile.
Ciò che sorprende è che questa sofferenza psicologica devastante sia stata alla base della richiesta eutanasica, sia in chi la violenza la ha perpetrata che in chi la violenza la ha subita.
La violenza, ogni forma di violenza, fisica oltre che psicologica, genera un processo distruttivo da cui può essere molto difficile emergere ed esige di essere compresa nel suo significato più profondo e curata al di là dei suoi effetti devastanti; ma la domanda che questi due casi lasciano senza risposta riguarda l’efficacia dei trattamenti psicologici e psichiatrici messi in atto dalle istituzioni in Belgio. Evidentemente non si può curare il dolore psicologico e prevenire la richiesta eutanasica sperando che si possa elaborare il lutto generato dalla violenza. Di conseguenza nel clima di violenza diffusa e generalizzata in cui vive la nostra società ognuno può sentirsi autorizzato a chiedere di morire, ricorrendo all’eutanasia, davanti al dolore generato dalle proprie responsabilità, dalle proprie debolezze e dalle proprie colpe.
Ma non può essere l’eutanasia la soluzione per misurarsi con questo mix di sofferenze generato da cause così diverse che affondano le loro radici nella violenza.
L’eutanasia è una forma di violenza esercitata contro sé stessi e non può “curare” o compensare le altre forme di violenza, comunque generate. E la legge belga propone o permette solo pseudo-soluzioni quando autorizza l’eutanasia davanti a forme di violenza che il soggetto ritiene insopportabili; crea delle linee di fuga in cui ci si può illudere di risolvere tensioni generate dalla violenza, ma in realtà ratifica con una ulteriore violenza il dolore e la sofferenza generati da altre forme di violenza.
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