In settimana il Consiglio dei ministri a Cutro ha varato una serie di misure per contrastare l’immigrazione clandestina e per scongiurare altre tragedie del mare.
Si tratta sostanzialmente di rafforzare gli strumenti per favorire l’immigrazione legale, di semplificare gli aspetti procedurali, intensificando i corridoi umanitari, e di contrastare le reti criminali degli scafisti.
Su queste ultime misure di contrasto, che poi rappresentano il cuore della questione, si dovrebbe lavorare in sede di conversione del decreto legge. L’approccio sembra quello solito, specificamente repressivo, che non ha portato grandi risultati.
Personalmente non credo che aumentare le pene sia, da solo, uno strumento utile di politica criminale. Ancor di più per combattere un fenomeno che ha natura internazionale e radici in altri Paesi.
Peraltro l’esperienza antimafia insegna che le organizzazioni criminali, di matrice mafiosa, vanno combattute attraverso strategie sovranazionali.
Fino ad oggi individuare e punire gli scafisti ha significato quasi esclusivamente prendere quelli che guidano i gommoni o le altre carrette del mare. Ma pensare che siano questi quattro “disperati” a gestire i traffici multimilionari dei migranti è un primo enorme errore. È come se immaginassimo di risolvere il traffico internazionale di droga arrestando i pusher (spesso minorenni) che vendono 10 palline di cocaina all’angolo della strada.
Questo è stato fino ad oggi l’atteggiamento nostro, purtroppo anche nella sostanziale indifferenza dell’Europa. C’è stata una sottovalutazione, probabilmente anche frutto di un’ideologia permissiva che ha finito e finisce col favorire le organizzazioni mafiose che gestiscono questi traffici.
Quindi, al di là dell’inasprimento di pene, che ha un valore prevalentemente simbolico, si dovrebbe iniziare a creare una consapevolezza, così come è avvenuto per il generale fenomeno mafioso, nel quale il particolare fenomeno del traffico di migranti si inserire a pieno titolo.
Prima del sacrificio di uomini e donne delle istituzioni anche in Italia non c’era la coscienza della gravità delle mafie. Ancora peggio avveniva a livello internazionale. E parliamo di 40 anni fa, non della preistoria.
Allora iniziamo col dire, e con lo scriverlo nelle nostre leggi, che il traffico di migranti è un fenomeno di stampo mafioso. Ha tutte le stigmate della mafiosità, per la natura dei soggetti che lo gestiscono (criminali senza scrupoli), per la capacità organizzativa, per la crudeltà degli atteggiamenti, per la pericolosità delle condotte e per la lucrosità dell’affare.
Oggi, forse solo gli addetti ai lavori, e neanche tutti, sanno che il delitto di favoreggiamento organizzato dell’immigrazione clandestina è inserito nell’ormai troppo ampio elenco dei delitti di competenza della Direzione distrettuale antimafia. Ma quello che manca è il riconoscimento espresso della natura mafiosa del fenomeno. Un po’ quello che accadde nel 1982 con l’approvazione del delitto di associazione di stampo mafioso di cui all’art. 416 bis del codice penale. Anche lì già esisteva la norma che sanzionava l’associazione a delinquere semplice, ma occorreva un salto di qualità nella risposta repressiva, non più rinviabile. E anche lì fu un sacrificio, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a spingere il Parlamento ad intervenire e ad approvare la legge in tempi record, dieci giorni.
Oggi serve un cambio di passo, una consapevolezza europea, che solo il nostro Paese può favorire, perché così come per le mafie, ne soffre gli effetti nefasti in maniera diretta ed immediata. Non mi risulta che a parte Frontex, il sistema di pattugliamento aereo delle frontiere della cui utilità si discute in questi giorni, ci sia uno spazio operativo, investigativo e giudiziario europeo attivo e proficuo.
Non ci sono sistemi di contrasto a livello sovranazionale, né specifici organismi competenti. Non ci sono indagini, evidentemente sovranazionali, attivate. Aldilà degli scafisti, parificabili per ruoli e posizioni ai pusher nello spaccio di droga, chi sono i capi? Chi gestisce questi traffici molto lucrosi? Che fine fanno i soldi che si guadagnano col sangue delle vittime dei naufragi? Fin quando non proveremo a dare delle risposte a questi quesiti, sarà solo tempo perso in attesa di un’altra tragedia annunciata.
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