No alla guerra. Sì all’America?

Parafrasando papa Francesco sul Covid: peggio della guerra c'è solo il dramma di sprecarla. Occorre una educazione alla pace. Ma l'unipolarismo Usa è finito

“Peggio della crisi, c’è solo il dramma di sprecarla”. L’avvertimento di papa Francesco si riferisce alla pandemia da coronavirus. Sprecarla non è poi un rischio tanto improbabile: basta dismettere le domande a riguardo del senso della vita, sulla possibilità di speranza, sulla convenienza dell’amicizia sociale. E putacaso anche sulle necessità del sistema sanitario. Basta accontentarsi che è passata e non darsi pensiero di non aver imparato niente. Pensarci bene, si può anche parafrasare: “Peggio della guerra, c’è solo il rischio di sprecarla”: non imparare (né cambiare) niente.

Le guerre dei trent’anni

Dopo il secondo conflitto mondiale, per mezzo secolo i Paesi europei sono stati in pace. Negli ultimi trent’anni, invece, sono stati spesso – chi più chi meno – coinvolti nelle guerre condotte fondamentalmente dagli Stati Uniti. A cominciare dalla prima guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein: 1991, stesso anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica, della “fine della storia” e del “nuovo ordine mondiale”.  Il più profondo e determinato oppositore della guerra fu Giovanni Paolo II. Il grande papa non ignorava certo che l’Iraq aveva violato il diritto internazionale invadendo il Kuwait, ma la sua visione era realistica e profetica. Wojtyła era profondamente convinto, e lo proclamò in tutti i modi e le occasioni, che la guerra non avrebbe portato alla soluzione delle controversie, ma avrebbe semmai aggravato i problemi e creato devastazioni e odio tra i popoli. “Avventura senza ritorno”, ecco la sua allarmata definizione. La guerra “deve essere irrevocabilmente proscritta”.

Caos (non) controllato

Le vicende del trentennio successivo confermarono inconfutabilmente che le previsioni di papa Wojtyła erano giuste. Con Bush padre l’Iraq fu costantemente penalizzato; con Clinton, idem. Dopo gli attentati terroristici alle Torri gemelle, fu invaso da Bush figlio. Motivazione: l’accusa (falsa) a Saddam Hussein di possedere armi batteriologiche. Risposta data al Papa che lo supplicava di non farlo: “È volontà di Dio”. Da allora in poi l’uso delle armi per volontà di Dio venne giustificato con nobili obiettivi, mai veramente raggiunti perché in realtà pretestuosi o impossibili. L’Iraq sprofondò nella guerra civile. Nacque il califfato. Gli attentati terroristici si moltiplicarono. Con lo scopo dichiarato di “esportare la democrazia”, fu messo a soqquadro tutto il Nord Africa, dalla Tunisia all’Egitto passando per il disastro libico, al Medio Oriente. La guerra in Siria non ha cavato un ragno dal buco, salvo usare i curdi e poi gettarli nelle mani di Erdogan. La guerra in Afghanistan è finita con una ritirata ridicola e la riconsegna di quel povero popolo ai talebani.

C’è poco da fare. Anche in Ucraina, terribile a dirsi ma è così, la discesa in campo sembra allo stato attuale “senza ritorno”.

Libertà di critica e… di educazione

Vale sempre e più che mai il “no alla guerra”, che non è affatto sì alla resa (sarebbe da pazzi, a questo punto, fare così in Ucraina), ma cuore e braccia (di tutti) impegnate nella costruzione di fatti di pace e nella ricerca (da parte dei governanti e dei politici) assidua e paziente delle vie negoziali.

Vale ancora il “No alla guerra, sì all’America” di un volantino di CL del 2003? Sostanzialmente sì, vale ancora. Anche se c’è stata una mutazione nel pacifismo politico: ci sono anche quelli di destra che “Putin non ha tutti i torti”, e ci sono quelli di sinistra che gli piace l’elmetto Nato. Vale, cioè, il sì al sistema fondato sui diritti umani e sulla democrazia, il sistema in cui – a differenza di tutti gli altri – si può (ancora) dire no alla guerra. O, più compiutamente, in cui si può liberamente educarsi alla giustizia e alla pace. Salvaguardare questo patrimonio non è una rendita ma un lavoro. Giusto per cercare di imparare dalle crisi e non sprecarle.

Qualche spunto

1) La fine della guerra fredda con la caduta del comunismo non è affatto la fine della storia. L’estensione del modello turbo-capitalistico su scala globale non è l’ultima parola, il mondo si sta ridisegnando.

2) Il sogno (o la pretesa) di un nuovo ordine mondiale monocentrico a egemonia americana si è infranto e non è ripristinabile. Siamo al bivio tra l’auspicabile edificazione di un mondo policentrico basata sulla multilateralità e una terza guerra mondiale neanche a pezzi tra imperi aggressivi a vocazione egemonica.

3) Comunque sia il primato morale e civile della tradizione europea e occidentale, di cui sono convinto (da non identificare con pretese egemoniche di qualunque sorta), deve essere vissuto e compreso. Esso non deve essere ulteriormente dissipato nel nichilismo consumista, e men che meno rinnegato attraverso le varie sgangherate (e intolleranti) forme di “cancel culture”.

4) Tale primato deve essere invece costantemente ritrovato e alimentato a partire dalla “religiosità” dell’essere umano, che fonda la dignità personale e la propensione all’amicizia sociale.

La prima urgenza è dunque un’educazione permanente di popolo, nutrita di valori ideali vissuti ed esperienze solidaristiche e sussidiarie esemplari. È da qui che prende sostanza e credibilità la democrazia (che non è morta, ma nemmeno si sente tanto bene).

5) Anche le migrazioni possono essere occasione per sviluppare legami di amicizia e reciproco riconoscimento tra popoli diversi. Così come avere presente e sostenere le buone iniziative di cooperazione internazionale.

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