Nel centenario della nascita di Franco Zeffirelli, il Teatro dell’Opera di Roma sceglie di ricordarlo con uno dei suoi spettacoli più amati: Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. L’allestimento, in scena dal 12 al 19 marzo, è stato creato nel 1992 proprio per l’Opera di Roma e da allora è stato ripreso sempre con grande successo. Al termine, lunghe ovazioni e richieste di bis. Ero in sala il 12 marzo.
Le estreme passioni d’amore e d’odio del capolavoro di Leoncavallo sono affidate alla lettura di Daniel Oren, che ritorna a dirigere l’orchestra del lirico capitolino dopo tredici anni di assenza. Molto amato a Roma, dove ha diretto più di trenta opere a partire dal 1979, Oren era sul podio anche alla prima di questa ripresa. La regia di Franco Zeffirelli, che firmò anche le scene, è ripresa da Stefano Trespidi. I coloratissimi costumi sono di Raimonda Gaetani, mentre le luci sono allestite da Vinicio Cheli.
Pagliacci è un’opera “di voci”, in cui i cantanti (e il coro) hanno un ruolo centrale. Nella sensuale parte di Nedda-Colombina sono impegnate Nino Machaidze e Valeria Sepe (16 e 18 marzo); il marito e capocomico Canio-Pagliaccio è interpretato da Brian Jagde, un generoso tenore americano al doppio debutto a Roma e nel ruolo, e da Luciano Ganci (14, 16, 17 e 19 marzo); il gobbo e vendicativo Tonio-Taddeo è incarnato da Amartuvshin Enkhbat e Roman Burdenko (16 e 19 marzo). Matteo Falcier darà la voce al mite Beppe, un tenore leggero, Vittorio Prato all’amante Silvio, che come Nedda cadrà ucciso dal pugnale di Canio. In scena il coro è preparato da Ciro Visco, con la partecipazione del coro di voci bianche e della scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma.
Inizialmente, il ruolo di Nedda era stato pensato da Zeffirelli per Cecilia Gasdia (che la interpretò nel 1992), ma Nino Machaidze ha, a mio avviso, una voce più spessa e drammaticamente più adatta. Il 12 marzo le “voci” hanno avuto applausi scroscianti, ove non proprie ovazioni, per oltre un quarto d’ora, soprattutto Brian Jagde dopo Vesti la Giubba.
Il dramma d’impronta verista, in un prologo e due atti, che debuttò il 21 maggio 1892 al Dal Verme di Milano, viene ambientato nella periferia di una degradata città meridionale dell’Italia degli anni Sessanta. Sul fondale grigio di un edificio di ringhiera brulicante di un’umanità variopinta – tra bici, auto e motorette del tempo – si svolge la cruenta storia di gelosia che mescola finzione e realtà, con un alternarsi di accenti patetici, grotteschi e sentimentali, nella rappresentazione di una compagnia di attori, giocolieri e saltimbanchi, arrivati a bordo di un camper. Si svolgerebbe in una cittadina della Calabria meridionale, ma potrebbe essere una Catania assolata dall’Etna.
«L’atmosfera verista di Pagliacci – dichiarò Zeffirelli all’epoca della creazione dello spettacolo – consente questa attualizzazione ‘verista’ tenendo conto che l’opera si intitola appunto Pagliacci, quasi a dire che per Leoncavallo siamo tutti un po’ pagliacci, che il mondo stesso è una pagliacciata: curiosamente è la stessa visione che il vecchio Verdi propone nel finale di Falstaff: “Tutto il mondo è burla”. Con una differenza fondamentale: che per Verdi si tratta di una burla vera e propria, mentre Pagliacci sono una dolorosissima avventura di sangue e di amore».
Pagliacci viene quasi sempre abbinata a Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Ne segue, infatti, il modello, anche se non ne ha né lo spessore, né il fiato. Tratta di un fattaccio di sesso e sangue in un villaggio calabrese che Leoncavallo sostenne di avere visto da giovane quando, proprio in quella cittadina, suo padre compiva i primi passi di una carriera in magistratura (ma la trama è molto simile a una pièce francese di successo in quegli anni La FemmeTabarin di Catullo Mendès). È scritto come una cronaca di un quotidiano di provincia e sfoggia due tenori, uno lirico e uno drammatico. Al tenore drammatico e al soprano vengono affidate parti molto ardue. Viene, a volte, rappresentato da solo o abbinato a un’altra opera o a un balletto in un atto (La Scala lo ha spesso abbinato a La Strada di Nino Rota). In termini televisivi, il suo traino naturale è Cavalleria.
È l’unica opera verista di Leoncavallo, il quale, coltissimo (anzi erudito) e più anziano degli altri, si dedicò a opere storiche (da grand opéra padano) a operette, “trasformandosi” ogni volta che si rivolgeva a un differente stile. Era anche finito, pour cause, il “trasformismo” parlamentare. Perché il Parlamento non esisteva più.
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