C’è un’espressione che spaventa: “errori di calcolo, escalation non voluta”. L’ha usata in un comunicato ufficiale il capo dell’Air Force Europe, generale Hecker. Segnala un rischio tremendo: che anche senza volontà di spingere verso lo scontro totale da parte di nessuno degli “imperi in guerra” (definizione di tre giorni fa data dal Papa) per uno sbaglio, un’imperizia, un equivoco, possa esplodere la Santabarbara di un conflitto immane, incrementando il tasso già inaudito di follia e sangue.
Quel che è accaduto non pare gran che grave ad occhi inesperti. Un incidente tutto lì, senza morti né feriti. Ma in questo consiste l’azzardo della guerra: politici e militari si illudono di saper misurare la forza, di riuscire a fissare dei limiti. Ora sappiamo – e mostrano di averlo compreso sia il Cremlino sia la Casa Bianca – che il paracadute di riserva può non aprirsi: il fatto è che a penzolare sul vuoto non è semplicemente un drone, e neppure un pilota, ma il mondo.
Se gli americani avessero interpretato come attacco deliberato alla loro sicurezza nazionale quel che è accaduto nella serata di ieri, si sarebbe innescato inesorabilmente il coinvolgimento diretto sul terreno, con esisti squassanti, degli Usa e quindi della Nato. Ha prevalso – anche se ci sembra assurdo usare queste parole consolanti – il buon senso.
Cos’è accaduto?
C’è stato uno scontro sul Mar Nero, a 40 miglia nautiche da Sebastopoli (Crimea), tra forze aeree russe e americane, che ha avuto per esito “solo” la distruzione di un drone statunitense, MQ-9 Reaper, frantumatosi nell’impatto con le acque. Come accade sempre in casi di questo genere, implicanti le superpotenze, le parti si sono dati reciprocamente la responsabilità dei guai. Per fortuna, nessuno dei contendenti ha accusato l’avversario di dolo. Il fatto è che le catastrofi possono nascere per distrazione, negligenza, presunzione, incoscienza.
Il ministero della Difesa russo accusa e insieme minimizza: i due caccia Su-27 – rivendica – non hanno sparato un solo colpo, il Reaper avrebbe cercato di divincolarsi dalla custodia dei caccia con una manovra sbagliata, schiantandosi. Ma il drone – questa è la tesi moscovita – non si sarebbe dovuto trovare lì, la zona era stata dichiarata, anche se unilateralmente, inviolabile per la Nato; inoltre l’attrezzo volante stava puntando sul territorio sovrano di Mosca.
Come già riferito, gli americani hanno nello stesso tempo misurato le parole ma segnalato l’abisso che potrebbe aprirsi per banale stupidità. L’accusa si riversa sui piloti russi, colpevoli per i generali Usa non di malvagità o ferocia, ma di “incompetenza”: sarebbero “scarsi”, poco professionali e perciò “pericolosi”. La segreteria di Stato ha protestato con Mosca “vigorosamente”.
Evidentemente c’è stato un momento in cui si è pesata l’opportunità di reagire o meno alla distruzione del drone con un’azione uguale e contraria. La miccia era accesa. Per fortuna Russia e America si sono accordati nello spegnerla. La prossima volta? O si fa la pace o il disastro totale incombe.
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