È morto nel sonno, a Portland (Usa), l’uomo che rivoluzionò il salto in alto moderno. Dick Fosbury, sventrato a 76 anni dal rinculo di un linfoma che gli si è ripresentato, lascia legato per sempre il suo nome alla data del 20 ottobre 1968: Città del Messico, Olimpiadi. È poco più che ventenne, la pettorina che indossa porta la scritta USA-272: gli scatti fotografici dell’epoca lo ritraggono con il volto teso, dimagrito, concentratissimo.
Quattro giorni prima, il 16 ottobre, due atleti afroamericani – Tommie Smith, John Carlos -, hanno alzato ciascuno un pugno guantato di nero, durante l’esecuzione dell’inno nazionale statunitense. Davanti a Dick, c’è l’asticella orizzontale: è posizionata a 2 metri e 24 centimetri. Lui, per questa occasione, porta una scarpa di un colore e l’altra di un altro colore: dice che gli avrebbero assicurato una spinta di elevazione maggiore rispetto a quelle dello stesso colore. Nell’attimo eccitante d’una follia, saranno sempre particolari di dimensioni minuscole a produrre prestazioni di misure maiuscole. Fino a quel giorno – da quand’esisteva la disciplina del salto in alto – l’atleta era solito saltar l’asticella con la pancia verso terra, o al massimo “a forbice”: si era sempre fatto così. L’oro, alle Olimpiadi, fino ad allora l’avevano vinto saltando così.
Dick parte, compie il brevissimo tragitto tra la zona d’attacco del piede e il punto da lui scelto per staccarsi da terra, alzandosi in volo il più possibile. Parte, corre, si alza verso l’alto, ma, all’ultimo istante – che, in quegli attimi, è sempre d’una durata infinitesimale – decide di girarsi di spalle, mostrando all’asticella la sua schiena, invece che la pancia. Si alza in volo, inarca la schiena, portandosi appresso tutto il peso delle gambe e del corpo: «Sapevo di dover cambiare tutta la posizione del mio corpo: mi sono serviti due anni di sperimentazione perché trovassi questo nuovo metodo».
Lo stadio venne avvolto dal silenzio surreale delle grandi occasioni, quelle capaci di sequestrarti il fiato a oltranza: tra i presenti, se chiamati a testimoniare, tutti avrebbero potuto giurare (quella volta era proprio all’unanimità) che non avevano mai visto nessuno saltare in quella maniera. Tanto più che, quel giorno, Dick strappò il nuovo record del mondo del salto in alto. D’allora – era un giorno come tanti altri quel giorno di ottobre del 1968 – tutti hanno iniziato a saltare come saltò Dick la prima volta. In chi, anche nei decenni a venire, andò oltre la medaglia conquistata e applaudita, rimase in cuore una domanda: “Che bisogno c’era d’inventarsi un nuovo modo di saltare se si poteva vincere l’oro saltando come avevan saltato tutti fino allora? Perché rischiare di farsi ridere dietro dal mondo inventandosi un nuovo modo di saltare senza che alcuno ne avvertisse il bisogno? Perché una contorsione pericolosa e fastidiosa del corpo quando la pancia assicurava una posizione più comoda?”
Fosbury, in quei due anni, assieme ai calcoli balistici della sua idea aveva calcolato anche le risposte da dare alle domande che molti, inevitabilmente, gli avrebbero fatto: sia in caso di perfetto atterraggio, sia in caso di disastro. E non trovò risposta migliore da fornire – dopo due anni di elaborazione – che la più convincente: «Sentivo che, saltando in quel modo, mi veniva meglio». Tutta qui la magia del suo gesto: in un’apparente banalità – «Mi veniva meglio» – che fece rosicare il mondo intero. Sfidò la normalità rischiando il suo contrario, per il solo fatto che gli sembrava di riuscire a saltare meglio, più in alto.
Non immaginava, mentre saltava l’asticella in quella maniera così bislacca, che stava firmando la più grande rivoluzione della storia del salto in alto. Saltare come prima non sarà mai vietato nei regolamenti. Oggi, però, tutti saltano con il “metodo Fosbury”: è un qualcosa che viene meglio. Saltò guardando verso l’alto invece che in basso, rovesciando di 180° la prospettiva su quella “a pancia” e “a forbice” (ventrali). Il genio è colui che sa guardare il mondo da una prospettiva diversa rispetto alla folla. D’altronde per vedere cose mai viste, occorre rischiare cose mai fatte. Dappertutto.
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