GUERRA IN IRAQ, L’ANNIVERSARIO 20 ANNI DOPO: LE TAPPE
Era il 20 marzo 2003 quando le truppe americane del Presidente George W. Bush sferrarono l’invasione dell’Iraq dando inizio alla guerra conclusa poi ufficialmente con il ritiro dei marines solo nel 2011. Il regime sunnita di Saddam Hussein, un tempo alleato degli Usa durante la prima Guerra del Golfo, venne così smembrato a soli due anni dall’attentato delle Torri Gemelle che stravolse per sempre i rapporti già complicati tra l’Occidente e il Medio Oriente (gettando poi le basi dell’instabilità politica internazionale giunta fino ad oggi, con la crescita esponenziale di importanza e potere per soggetti come Cina, Russia e India).
Assieme alla guerra in Afghanistan – nata però con lo scopo quantomeno “comprensibile” della cattura di Osama Bin Laden responsabile dell’11 settembre 2001 – la guerra in Iraq ha cambiato forse per sempre i rapporti di forza internazionali, con la guida anglo-americana che da quel 2003 in poi perse pian piano l’aurea di “primazia” nelle dinamiche geopolitiche. La presunta “bugia” sulle armi di distrazione di massa del regime di Saddam ha poi portato anni dopo a riconoscere l’attacco all’Iraq come un forte errore dell’Amministrazione Bush che compromise il già delicato equilibro in Medio Oriente. Sono in tutto 4 le tappe principali in cui poter suddividere il lungo conflitto tra la coalizione Usa-Uk e l’Iraq un tempo alleato contro l’Iran di Khomeini: il 5 febbraio 2003 con il famoso discorso alle Nazioni Unite il segretario di Stato Usa Colin Powell mostra all’ONU le prove (poi rivelatesi false) sullo sviluppo di armi chimiche e di “distruzione di massa” prodotte in Iraq sotto il regime di Saddam Hussein. Con l’operazione “Iraqi Freedom” il 20 marzo 2003 viene data piena conseguenza a quella “pistola fumante” mostrata un mese prima al mondo: inizia infatti ufficialmente l’invasione dell’esercito americano su terra irachena. Il 9 aprile 2003, poche settimane dopo, cade Baghdad con l’abbattimento della enorme statua di Saddam all’ingresso della città. Terzo momento chiave si ha poi il 13 dicembre 2003 quando il dittatore sunnita viene catturato dalle forze angloamericane a Tikrit: dopo la detenzione e il processo presso il Tribunale dell’Iraq, Saddam Hussein verrà poi impiccato 30 dicembre 2006. Ad inizio 2007 però di fronte a nuovi attacchi e raid nel Paese, Bush decide per un secondo invio di altri 20mila soldati: sarà poi la Presidenza Obama nel 2011 a porre fine al conflitto con il definitivo ritiro di tutto il contingente americano dall’Iraq.
ARMI CHIMICHE E NUCLEARI, LE PROVE “FINTE” ALL’ONU E L’INVASIONE USA
«Ogni affermazione che farò oggi è supportata da fonti solide. Vi stiamo riportando fatti e conclusioni basate su un importante lavoro di intelligence..»: lo diceva Colin Powell nel febbraio 2003 nell’ultima e definitiva “prova” portata dagli Stati Uniti alla comunità internazionale per convincerli della necessità di far cadere il regime di Saddam Hussein. Quel discorso all’ONU passò alla storia come “la grande bugia”, per stessa ammissione dello stesso Powell che anni dopo spiegò come il Governo fece un errore clamoroso nella gestione dell’intera vicenda. Con una fialetta piena di polvere bianca fra le mani, il segretario di Stato americano denuncio Baghdad di produrre almeno 25mila litri di antrace: non solo, nel corso del discorso durato oltre un’ora mostrò foto satellitari di presunte installazioni mobili dove il dittatore avrebbe custodito le temute armi “di distruzione di massa”.
«Saddam ha scorte per armare almeno 16mila testate con agenti chimici o biologici. E possiede da 100 a 500 tonnellate di armi chimiche: le ha già testate su esseri umani usando condannati a morte come cavie», disse ancora Powell impressionando il mondo e ricordando quanto avvenuto nel 1988 nella strage di Halabja dove il regime di Saddam uccise 5mila curdi iracheni usando iprite e gas nervino. Armi chimiche ma anche rischio nucleare, concluse l’America di Bush contro Saddam Hussein: «Saddam vuole la bomba atomica. Ha già due dei tre elementi chiave per costruirla». Il discorso si permeò della strategia “first strike”, ovvero “diritto a sparare per primi” se sotto minaccia grave: gli Usa e con essi le forze occidentali accettarono dunque l’invasione dell’Iraq per far cadere il regime e impedire il disastro nucleare-batteriologico. Le prove decisive usate per giustificare una nuova guerra si basavano su fonti di intelligence e soprattutto su un dossier realizzato a partire dal 2001 da Ahmed Chalabi, sciita di Baghdad nell’idea di Bush come possibile nuovo “rais” una volta abbattuto Saddam. Anni dopo al Guardian fu lo stesso Chalabi ad ammettere di avere esagerato il dossier nella speranza di far cadere un regime sanguinario come quello di Saddam. Oggi a “Repubblica” il generale David Petraeus, che guidò le truppe americane in Iraq nel 2003, riconosce i tanti errori compiuto dall’amministrazione americana in quella guerra: «Io c’ero, fummo accolti da liberatori. Errori massicci furono commessi dopo e sono pronto a riconoscerli, ma la maggior parte degli iracheni voleva rovesciare il brutale regime di Saddam»
IRAQ 20 ANNI DOPO: “NESSUNO ASCOLTÒ SAN GIOVANNI PAOLO II”
«Pochi giorni pima del discorso di Powell, funzionari dell’intelligence avevano in realtà avverito l’allora direttore della CIA George Tenet sui dubbi riguardanti il dossier», spiega oggi “Repubblica” ricordando quanto avvenuto dopo l’inizio della guerra in Iraq. La CIA non avvisò mai Powell che rimase dunque ignaro dell’esagerazione delle “prove” contro Saddam: lo stesso generale però alla ABC spiegò anni dopo che quel discorso «resta comunque una macchia indelebile sulla mia storia e carriera». La guerra in Iraq fu tremenda e lunghissima anche se resta tutt’oggi l’atrocità commessa per decenni dal regime sunnita di Saddam Hussein: il problema, come dimostra il “caso” iracheno, è quale sia il limite sottile tra la necessità di intervenire per modificare gli assetti geopolitici e il rispetto della sovranità nazionale.
Quello che certamente rimane ancora dopo 20 anni è la presenza di prove finte (o esagerate) per giustificare una guerra e un attacco che già all’epoca l’opinione pubblica criticò aspramente: una posizione diversa da tutte all’epoca, capace di comprendere l’atrocità tanto del regime di Saddam quanto di una guerra d’invasione come quella di Bush, fu quella di Papa San Giovanni Paolo II. Come ricorda oggi il Cardinale Filoni a “Vatican News” a 20 anni dalla guerra in Iraq, «nessuno ascoltò l’appello di Giovanni Paolo II contro la guerra». Il 13 gennaio 2003 il Papa polacco nel discorso presso il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede lanciava il suo monito: «Mai la guerra può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per regolare i contenziosi fra le Nazioni». Appello poi ribadito anche il 16 marzo 2003 all’Angelus a pochi giorni dall’effettiva invasione: «di fronte alle tremende conseguenze che un’operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell’Iraq e per l’equilibrio dell’intera regione del Medio Oriente, già tanto provata, nonché per gli estremismi che potrebbero derivarne, c’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora spazio per la pace; non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare». Il cardinale Fernando Filoni, all’epoca nunzio apostolico a Baghdad, ricorda come il Papa ebbe il coraggio di denunciare l’inconsistenza di una guerra del genere ma nessuno lo ascoltò: «L’Isis è stata la conseguenza di un’anarchia, di problemi che non erano stati risolti, di una difesa non ancora definita. Tutto ciò ha generato il sopravvento di bande e gruppi che hanno messo in crisi la popolazione. Tutta la popolazione, ma in particolare i cristiani che, nella zona del nord Iraq, nella Piana di Ninive, nei villaggi del Kurdistan, sono diventati oggetto di una spietata caccia insieme ad altre minoranze della zona».