Sarà che la pandemia è agli sgoccioli e, a parte gli eventuali strascichi giudiziari, non sembra avere insegnato molto al servizio sanitario; o sarà l’approvazione dei primi passaggi della legge sull’autonomia differenziata, che alcuni commentatori di cose sanitarie vedono come il fumo negli occhi; o ancora sarà il cambio di Governo per cui la sanità non è più guidata da un ministro di sinistra; o sarà chissà quale altra congiunzione astrale che ci sta mettendo del suo: sta di fatto che sui media di settore, ma anche sui quotidiani nazionali e in alcuni programmi televisivi, si è riaperto un grande dibattito sul servizio sanitario.
All’inizio il dibattito era incentrato solo sui temi del finanziamento, ritenuto inadeguato da tutti gli intervenuti ma senza precisare dove si devono prendere le risorse, e del personale, anch’esso considerato critico dal punto di vista numerico (soprattutto in alcuni settori), da quello della soddisfazione (in particolare, ma non solo, economica) degli addetti, nonché dagli errori di programmazione degli anni (almeno una decina) passati; ma adesso la discussione si è ampliata per toccare i temi dei lasciti della pandemia, di cosa si deve considerare all’interno dei livelli essenziali di assistenza, della ridefinizione del rapporto pubblico-privato, della sanità integrativa e così via.
Per diversi osservatori, prevalentemente orientati a sinistra, il Ssn disegnato dalle leggi in vigore è arrivato al capolinea, necessita di essere ripensato in maniera sostanziale e quindi se ne deve parlare. È giusto, per chi scrive, parlare di più di sanità, non solo perché servono più risorse per il Ssn (e chi ne chiederebbe di meno?), ma soprattutto perché è necessario che si parli di più di sanità in generale, che la sanità faccia maggiormente parte delle preoccupazioni sia del Governo centrale che dei governi (alcuni appena rinnovati) regionali, che si guardi di più alla sanità non solo come una spesa, un gravame da sopportare in contrapposizione ad altri, ma come un’opportunità di investimento, di crescita e di sviluppo. Che poi si sia arrivati o meno al capolinea di questo Ssn è del tutto irrilevante. Bene quindi il dibattito che si è innescato e che speriamo non si riduca ad accademica discussione o a semplice strumento opportunistico di sterile battaglia politica.
Ci sono alcuni elementi della discussione che, a chi scrive, destano preoccupazione: tra i tanti ne segnalo due.
Il primo. Vi è un robusto movimento di idee che vuole un servizio sanitario più centralistico, con minore autonomia e con minori funzioni attribuite alle regioni e che (da questo punto di vista) mette addirittura in discussione il contenuto del titolo V della Costituzione per gli aspetti sanitari. Alla base di questo filone di pensiero vi sono un giudizio negativo sul comportamento delle regioni e sulla loro capacità di erogare i livelli essenziali, un peso maggiore da dare al valore dell’uniformità e dell’omogeneità dei comportamenti delle amministrazioni territoriali, e un forte incentivo alla pianificazione centrale come strumento di programmazione (vedi, ad esempio, il DM 70/2015 “Regolamento sugli standard qualitativi, tecnologici, strutturali e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera”, il Pnrr ed il DM 77/2022 “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”).
Il secondo: il rapporto pubblico-privato. Si ripropone l’idea del pubblico come titolare (quasi esclusivo) del servizio (e quindi lo Stato, le Regioni, …) rispetto al pubblico come interesse del servizio. Si chiede di marginalizzare sempre di più il ruolo degli operatori privati anche accreditati con il Ssn (profit e non profit) alla luce di un supposto assunto secondo cui l’erogazione dei servizi sanitari spetti (solo) alle strutture pubbliche (domanda: chi ha detto che il servizio pubblico è prerogativa dello Stato e degli enti ad esso assimilabili?), marginalizzazione che da una parte permetterebbe di recuperare risorse da versare nelle piangenti casse delle strutture pubbliche e dall’altra limiterebbe il profitto che la presenza dei privati (in particolare, profit) induce e che viene definito da taluni come “la grande marchetta”.
Chi scrive non crede che siano queste le strade per far fare un passo in avanti al servizio sanitario.
Se ci sono elementi che destano preoccupazione ce ne sono altri che suscitano interesse, vuoi perché riaprono la discussione su oggetti che in questi ultimi anni sono rimasti un po’ nell’ombra (ad esempio, la sanità integrativa), vuoi perché introducono elementi di rilevante novità. Un esempio di quest’ultima categoria di temi è il problema posto recentemente addirittura dalle stesse Regioni (attraverso un documento della Commissione Salute) che si chiedono se l’attuale sistema Stato è in grado di sostenere l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza di oggi o se questi ultimi vadano invece ridisegnati al ribasso. Si va verso la fine del “tutto a tutti, gratis”, con le dolorose scelte che ne dovranno discendere, o si continuerà a far finta che “va tutto bene”, con le inique conseguenze che sono così evidenti (“chi ha i soldi paga, gli altri aspettano”)?
Il nuovo Governo, al quale per il momento non si può imputare ovviamente nulla di quello che abbiamo descritto, comincia ad accumulare mesi di esperienza, le Regioni che hanno appena votato hanno formato le proprie squadre, e anche le opposizioni hanno chiarito i propri assetti. A questo punto anche la turbolenza elettorale, con quel che tipicamente la segue, si è risolta ed è il momento di passare alle opere: o si cominciano a prendere decisioni serie su qualche problema, a entrare nel merito delle questioni che il Ssn pone scegliendone qualcuna da cui partire, a mettere in campo azioni concrete sui tanti fronti aperti (compreso il tema delle attività improprie che sembrano preoccupare il ministro: 1.300.000 ricoveri, 80% degli accessi in pronto soccorso), oppure vuol dire che si dà credito e spazio alle (non poche) sirene che da qualche tempo cantano il “de profundis” del Servizio sanitario nazionale, una prospettiva che più che guardare avanti verso il futuro sembra piuttosto farci tornare indietro verso un passato che abbiamo volentieri lasciato.
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