Il mese supplementare che la Commissione si è presa per “completare le attività tecniche di campionamento e verifica” delle opere previste dal Governo ha aperto un problema politico. Un mese in più vuol dire ritardi e ogni ritardo alimenta dubbi sulla realizzazione delle opere, insieme ad un florilegio di cronache sullo scontento della Meloni, le divisioni tra Chigi e Mef, i timori dell’Anac sugli appalti e quelli di Bruxelles sulla capacità italiana di spendere i fondi e chi più ne ha più ne metta.
Che si tratti di piantare alberi o costruire viadotti, tutto è sottoposto al rigoroso criterio delle condizionalità: occorre spendere i soldi come piace all’Unione. Ma attuare un volume così importante di investimenti è un problema, spiega Annalisa Giachi, responsabile ricerche di Fondazione Promo Pa e e coordinatrice di OReP Osservatorio sul Recovery Plan. E non si può ancora dire cosa riusciremo a realizzare.
Il mese in più che serve alla Commissione è di fatto una sanzione del nostro ritardo?
No, al momento non inficia nulla. Ogni volta che ci sono tranches di pagamento, la Commissione fa un esame accurato. Le tranches sono due per anno, a dicembre il nostro Governo ha presentato richiesta per la terza tranche, che prevedeva il raggiungimento di 55 obiettivi (tra “target e “milestones”). Di questi 55 obiettivi abbiamo inviato i relativi documenti progettuali e su alcuni interventi la Commissione ha rilevato incongruenze o sollevato questioni di ammissibilità.
Come funziona al riguardo il meccanismo del Pnrr?
È basato sulla performance: funziona a rendicontazione. I soldi vengo dati non quando si fa il progetto, ma quando c’è la messa in opera. Mi fai vedere che hai fatto una parte di opera e io ti do una tranche.
Le criticità sollevate?
Riguardano gli interventi relativi agli stadi “Bosco dello Sport” di Venezia e “Artemio Franchi” di Firenze, le concessioni portuali e le reti di teleriscaldamento. Sulle concessioni portuali la Commissione ha sottolineato l’esigenza di fissare un limite temporale massimo, mentre sugli stadi di Venezia e Firenze e sulle reti di teleriscaldamento è stata contestata l’ammissibilità di alcuni progetti rispetto agli obiettivi delle rispettive misure di investimento.
La Corte dei Conti invece ha contestato la misura relativa alla piantumazione di alberi. Cosa abbiamo sbagliato?
La misura “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano” prevedeva la piantumazione e la messa a dimora di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022. Come rilevato dalla Corte dei Conti solo alcune città metropolitane sono andate oltre la fase di progettazione e molte di esse hanno piantato semplici semi, invece di collocare piante già cresciute nei luoghi prescelti.
E adesso?
La Commissione ha chiesto chiarimenti, si è presa un mese di tempo in più per valutarli e poi ci dirà se le risposte sono adeguate o se dobbiamo ritirare alcuni progetti. Va detto che su 55 obiettivi si tratta davvero di obiezioni limitate e superabili.
Il nostro sistema è capace di mettere a terra un volume così imponente di investimenti?
Al momento lo stesso ministro Fitto ha dichiarato che per alcuni investimenti è molto difficile. Le maggiori difficoltà riguardano investimenti infrastrutturali importanti, che sono ancora in fase di progettazione. È chiaro che non si riesce ad avviare i cantieri entro la fine del 2023, sarà molto difficile realizzare le opere entro il 2026. Dipende sempre dal tipo di opera, ma per le opere più complesse i tempi cominciano ad essere complessivamente stretti.
Può farci uno o due esempi di tali opere?
Tutti gli interventi sugli asili e le scuole in capo agli enti locali, oppure le infrastrutture della Missione 6 – Salute, o gli interventi sulle infrastrutture ferroviarie, che stanno procedendo piuttosto bene.
Dunque c’è un ritardo oggettivo nella capacità di spesa.
Sì, come OReP lo abbiamo rilevato già ad aprile 2022. Tutti gli attori coinvolti stanno correndo e facendo il possibile, però, oggettivamente, la mole degli investimenti è grande e la macchina pubblica – o almeno una gran parte – non era attrezzata ad affrontarla. A ciò va aggiunto un problema ulteriore, la capacità delle imprese di reggere lo stress derivante dall’eseguire così tante opere in tempi così brevi, con prezzi lievitati e con scarsa manodopera specializzata.
Partiamo da un altro punto di vista. Che cosa ci impedisce di essere più efficienti?
I tempi burocratici, che dipendono da come è fatta la nostra macchina normativa e regolatoria. Detto altrimenti, riusciremmo a fare i progetti che abbiamo programmato e che l’Ue ha approvato se gli iter fossero più semplici e quindi più veloci.
Il nuovo codice degli appalti va in questa direzione?
Sì, la riforma per semplificarlo è una buona notizia. Se i procedimenti per fare una gara sono più semplici e si arriva prima all’assegnazione, tanto di guadagnato.
Altri problemi?
Il sistema delle autorizzazioni: ambientali, urbanistiche, paesaggistiche. Sono procedure complesse che comportano dei freni, anche giustificati. Prendiamo un impianto di gestione dei rifiuti: l’iter per realizzarlo è molto complesso, vede in campo regione, provincia e comune.
Secondo lei c’è qualcosa da imputare al Pnrr?
È stato concepito come un piano molto ambizioso, forse troppo ambizioso. Contiene tanti obiettivi, sia quantitativi che qualitativi. Consiste in investimenti e riforme e i due fattori devono andare sempre di pari passo: occorre che facciamo le riforme e alle riforme abbiniamo gli investimenti. Senza riforme non si possono attuare gli investimenti e su questo la Commissione non ammette deroghe.
Il Pnrr doveva rispondere ad una crisi congiunturale, nei fatti è pensato per cambiare anche in profondità la nostra economia: basti vedere la transizione ecologica.
L’idea europea del Next Generation Eu è stata quella di definire un piano che delineasse il futuro dell’Europa a medio termine innescando una crescita stabile dell’area Ue e nel caso dell’Italia far ripartire il Pil in un quadro di maggiore competitività anche per le future generazioni.
Cosa pensa dell’ipotesi di spostare i progetti più a rischio – si parla di circa 10 mld – sotto la voce dei fondi di coesione, destinandoli ai fondi della programmazione 2021-2027, per poterli spendere più rapidamente ed efficacemente grazie a Enel e Eni?
Potrebbe essere una buona soluzione, avremmo tre anni in più, fino al 2029, per realizzare e rendicontare gli interventi.
Che differenza c’è tra gli adempimenti sui quali si è misurato il Governo Draghi e quelli che frenano il Governo Meloni?
Il Governo Draghi ha impostato il Piano e ha incassato piuttosto agevolmente le prime due rate, perché legate ad obiettivi più che altro di carattere normativo/programmatico: bisognava varare i decreti, impostare le riforme, far partire i bandi ministeriali. Draghi ha messo in moto la macchina statale, che si è mossa piuttosto velocemente facendo i bandi con cui sono stati assegnati i fondi. Il Governo Meloni si trova adesso a dover gestire la “messa a terra”, cioè aprire i cantieri, fare le opere. È sempre la parte più difficile.
La decisione del Governo di spostare la struttura centrale del Pnrr dal Mef a Chigi?
È il tentativo di coordinare meglio, anche dal punto di vista politico, l’operato delle diverse unità di missione insediate presso i ministeri titolari delle misure. Vedremo nei prossimi mesi quanto sarà efficace il provvedimento.
Il 40% delle risorse e dei progetti è destinato al Mezzogiorno. Le risulta che siamo gravemente impreparati?
La capacità di spesa richiesta dal Piano, che è già difficoltosa nel Centro-Nord, è ancora più limitata al Sud dove le amministrazioni hanno carenze di personale e di capacità amministrativa. Per cui non tutto sarà realizzato. È difficile adesso ipotizzare quanto e cosa non verrà fatto. Alla fine del 2023 però la situazione sarà più chiara.
Su quali basi?
A fine anno sapremo quante progettazioni sono concluse e dunque quanti cantieri apriranno. Allora sarà più facile dire quanto Pnrr riusciremo a realizzare.
(Federico Ferraù)
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