Avrebbe potuto schivarla, percorrendone la circonvallazione esterna. In fin dei conti, Cristoddio sapeva bene che Gerusalemme è una città inaffidabile: oggi grida “Osanna!”, venerdì griderà “Crocifiggilo!”. Capita sempre così: quando la folla dovrà scegliere chi deve essere crocifisso, la folla salverà sempre Barabba, mai l’innocente.
Eppure, quand’è prossimo alle mura della città santa, in sella al suo puledro d’asina, il Re decide d’attraversare la città, fendendola nel suo cuore: le viuzze, i quartieri, il mercato, la confusione, lo stordimento. L’attraversa tutta per tentare di ricondurre qualche altro cuore a Lui. È una battaglia vecchia come il tempo: da una parte c’è il ruggito della folla, dall’altro la voce della coscienza.
Non poteva, comunque, fare altrimenti il Re cristiano: se il suo Dio è il Dio della sfida, del rischio, allora non poteva stare seduto in tribuna ma doveva scendere in pista. A correre a perdifiato accanto al suo popolo che, pur distratto e caotico, rimaneva sempre la sua città del cuore. Preferì, dunque, rimanere fino alla fine nelle intemperie della storia: pur sapendo, già all’inizio, che quando apparirà sul Monte Calvario la grande valanga, nessuno di quei fiocchi che gli stan gridando Osanna! si sentirà responsabile della valanga. Pur essendo sua piccola parte.
Le ultime lacrime Cristoddìo se le tiene care per la croce: quelle penultime le ha dedicate alla sua città ingannatrice: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto” (Lc 13,31-35). Hanno fatto presto, i pulcini, a scordarsi la premura della mammachioccia: oggi, in città, corrono, gridano come se avessero il fuoco sotto il sedere, tutti in cerca di un qualcosa che non troveranno mai, giacché rifiutano il Tutto ch’era stato loro dato dal Cielo.
Corrono per la troppa paura d’incontrare loro stessi, di dover prendere posizione davanti alla loro piccola storia, di dover mettere la faccia al passaggio di quell’Uomo inerme e mai così divisivo dentro la città dalle lacrime facili. Corrono, gridano perché non sanno nemmeno loro che cosa vogliono dalla loro vita: tutti assieme – saran forse un’esercito schierato a battaglia – vogliono quello che, singolarmente, non avrebbero mai il coraggio di desiderare: la gogna del Re appeso al patibolo. All’indomani della crocifissione, poi, scopriranno d’essere venuti al mondo soltanto per fare folla. Nulla di più.
Lui staziona sul dorso del puledro: ha addosso la calma di chi ha pianto tutte le lacrime che aveva. I suoi lineamenti sono quelli di un uomo ch’è giunto a una specie di malinconica tranquillità, una sorta di calma, quasi la certezza che non succederà più nulla di così eclatante da riaccreditare ai suoi occhi la folla di facili osanna. La sua scelta, Lui l’ha già fatta quand’era ancora lungi dalla porta di Gerusalemme: “Se la sofferenza vi ha resi cattivi – si confidò con gli amici che a lui eran più cari –, vorrà dire che l’avete sprecata”.
Entra in città nudo, senza più corazzieri al fianco, perché lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva: è lo splendore imprevisto di una nudità che si pensava scomparsa per sempre. In Gesù, a Gerusalemme, Dio si spoglia del tutto davanti ai nostri occhi. Fra pochi giorni avrà bisogno del fazzoletto di Veronica, delle spalle di Simone di Cirene, delle braccia di Giuseppe d’Arimatea, della tenerezza dell’amico Nicodemo.
Son in pochi ad accorgersene mentre sta accadendo, ma questo è il più gran ritrovo di cui la storia abbia memoria: per una volta, a ogni singolo fiocco, viene chiesto di non nascondersi dietro la valanga ma di uscire fuori, prendere posizione.
Nel dramma di Cristo, se uno vorrà, potrà ritrovare un suo sosia, qualcuno che per il merito o la viltà gli assomiglia: la passione del Cristo (cfr Mt 26,14-27,66) è un album fotografico con tanti volti ritratti. Qui, per Cristo, sarebbe più facile dire “il dente mi fa male” che dire “ho il cuore spezzato”. Rimane il fatto che “ad un cuore in pezzi nessuno s’avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto” (E. Dickinson).
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