Il palkovnik (colonnello) Piotr Danilovic Ivanov era arrivato al massimo della carriera. Generale non avrebbe mai potuto diventarlo. Quel grado di solito era riservato a quelli che prendono decisioni. Lui era tra coloro che dovevano eseguire, sia pure ad alto livello, ciò che altri decidevano. E poi lui era un militare per modo di dire. Ingegnere elettronico “krasnij diplom” ottenuto al Politecnico di San Pietroburgo, dopo aver lavorato in diverse centrali nucleari, era stato militarizzato e in breve tempo, per merito delle sue conoscenze, era arrivato a quel grado.
Naturalmente non aveva dovuto partecipare a nessuna campagna militare, ma era stato riservato ad entrare in quel gruppo di super-esperti che dovevano essere riservati per un eventuale conflitto nucleare. Per la verità lui e i suoi colleghi, anche se preparati a tutto e al massimo livello, forse per questo, si sentivano un po’ inutili. Si sentivano chiamati ad un compito importantissimo, anzi, importantissimo è ancora poco, ma che quasi sicuramente non avrebbero mai dovuto svolgere.
Ivanov, proprio perché era un uomo serio, coscienzioso, astemio e fin da giovane affascinato dall’idea della costruzione di una grande, nuova Russia, era addirittura diventato il comandante di quegli esperti. A lui sarebbe toccato il compito di premere l’ultimo bottone, dopo che il penultimo sarebbe stato premuto dal Presidente.
Piotr Danilovic era ormai avanti negli anni e gli mancava poco alla pensione, quando avrebbe potuto ritirarsi con Nina in qualche dacia della Crimea, da poco conquistata. In realtà la guerra in Ucraina non l’aveva coinvolto più di tanto. Era, sì, dispiaciuto per la sorte di tanti amici con cui aveva lavorato a Zaporizhzha, ma in fondo era convinto che prima o poi tutto questo bardak (caos) sarebbe finito. Certo il tempo passava, passava… Nina era un po’ inquieta. Era certamente ancora presto per la pensione, ma era già l’ora di andare almeno in vacanza. “Là hanno bisogno di uomini da mandare al massacro, non di super esperti come te”, gli diceva Nina.
È vero che il Presidente, e i suoi, avevano parlato più di una volta della possibilità di un conflitto nucleare, ma era un po’ come quando suo padre, per punirlo di qualche marachella, lo minacciava di mandarlo a raccogliere patate. Già, ma intanto il tempo passava, passava.
Gli occidentali avevano incominciato a mandare armi sempre più sofisticate, e gli ucraini avevano già cominciato a fare qualche incursione sul territorio russo; vuoi che i nostri, alla fine, non riescano a prendere il sopravvento? Così pensava Piotr Danilovic quel giorno, mentre entrava nel suo ufficio, un locale speciale in un bunker sorvegliato da guardie anche loro speciali.
Dopo un paio d’ore di normale lavoro anche un po’ noioso, improvvisamente si accese il monitor, quel monitor che non era mai acceso. Apparve un ordine, perentorio. In quel momento, in pochi istanti, passarono velocemente alla mente di Piotr Danilovic le immagini di Nina, dei sei nipoti, della dacia che già avevano prenotato, dell’ultima parata sulla Piazza Rossa. Ma c’era poco, pochissimo tempo per pensare. L’ordine era di agire immediatamente, di premere il bottone.
Se Piotr non l’ha fatto, sarete in grado di leggere questo racconto. Altrimenti, speriamo di trovarci in un posto migliore della dacia in Crimea.