L’inflazione nell’Eurozona a marzo è scesa su base annua dal +8,5% al +6,9%, grazie soprattutto al calo dei prezzi energetici. Unita all’incertezza causata dalle recenti crisi bancarie, questa discesa potrebbe consigliare alla Bce di rallentare il cammino di rialzo dei tassi. Tuttavia, Christine Lagarde ha evidenziato che c’è ancora strada da fare, soprattutto perché l’inflazione di fondo continua a crescere (è passata dal +5,6% di febbraio al +5,7% di marzo). Come spiega Mario Deaglio, professore emerito di economia internazionale all’Università di Torino, «finché questa spinta non si esaurirà, sarà difficile ritenere l’inflazione un problema risolto».
Secondo lei, è necessario che la Bce vada avanti nel percorso di rialzo dei tassi?
Credo che di sì, anche se in maniera più graduale. Si potrebbe, in questo senso, pensare a un rialzo non più di 50 punti base, ma di soli 25.
Ad aprile non è in programma una riunione del Consiglio direttivo della Bce. La decisione di maggio potrebbe essere presa anche in base alle notizie che arriveranno dal settore bancario in questo mese?
Probabilmente sì. Non dobbiamo dimenticare che il sistema di vigilanza nell’Eurozona, che per le grandi banche fa capo proprio alla Bce, appare efficace. Quello che può accadere è un’eccessiva esposizione di un determinato istituto verso titoli di un altro che fa parte di un sistema non così sotto controllo, come si è potuto incredibilmente vedere nel caso americano. Dunque, un’operazione che non presentava rischi nel momento in cui è stata avviata potrebbe rivelarsi portatrice di svalutazioni e perdite.
Se le banche europee sono in un sistema solido, cosa si può dire di quelle del Regno Unito, che hanno anche più interconnessioni con quelle americane?
Londra negli ultimi anni, in particolare dopo la Brexit, ha perduto un po’ della sua centralità globale, ma non certo del tutto: resta, come la Svizzera, un crocevia di capitali che arrivano da ogni parte del mondo. In ogni caso, tra banche inglesi ed europee non ci sono legami molto stretti, soprattutto dopo l’uscita dall’Ue.
Potrebbe esserci un problema, come si è verificato per alcuni giorni con Deutsche Bank, determinato da operazioni che sui mercati creano aspettative negative in grado di mettere in difficoltà una banca?
Dipende dal rilievo che viene dato a situazioni che non sono ancora una vera e propria notizia, ma sono allo stadio precedente. Mi spiego meglio: è possibile che una banca incontri una difficoltà di qualche tipo, ma questo non vuol dire automaticamente, come può essere tradotto mediaticamente, che potrebbe aver bisogno di un intervento di sostegno urgente per evitare il peggio. Occorre, quindi, anche prudenza da parte del mondo dell’informazione per non aggravare certe situazioni.
Con il rialzo dei tassi, i titoli di stato detenuti dalle banche si svalutano e diventano più onerosi i mutui a tasso variabile, creando, quindi, più incertezza sui crediti delle stesse banche. Questo può essere un problema?
Per quanto riguarda i crediti delle banche, esistono sistemi per evitare problemi. Per fare un esempio, nulla vieta di approvare norme per incentivare le banche a calmierare le rate per un certo lasso di tempo o di ipotizzare, nel caso la situazione diventasse particolarmente seria, moratorie come già avvenuto in passato. Diverso il discorso per quel che riguarda i titoli di stato, soprattutto perché l’Italia deve emetterne un ingente quantitativo quest’anno e non può contare sugli acquisti della Bce come prima.
In effetti da marzo sono stati ridotti di 15 miliardi al mese i riacquisti dei titoli giunti a scadenza da parte della Bce e a giugno si dovrà decidere se diminuirli ulteriormente.
Da quanto si è visto in questi ultimi mesi, non è che all’Italia si neghi il credito, anzi, in fondo i mercati gradiscono titoli che rendono un po’ più degli altri con un rischio che finora è stato valutato sostenibile e gestibile, anche grazie a un Pil che è cresciuto bene. Gli investitori, quindi, saranno molto attenti alle vicende legate al Pnrr e alla posizione italiana in Europa. Tornando alla Bce, quella di giugno sarà una decisione importante e dipenderà anche da come evolverà il contesto. Non dimentichiamo che sullo sfondo prosegue uno scontro, di cui si parla poco perché non è molto diplomatico farlo, tra Usa e Ue in seguito all’approvazione dell’Ira da parte di Washington. Bruxelles ha finora risposto con l’idea di introdurre una carbon border tax.
Sì, ricordiamoci che se Bruxelles potesse emettere titoli propri, non solo in situazioni di emergenza, ma comunque entro certo limiti, potrebbe prestare risorse agli Stati dando loro anche un sollievo finanziario, visto il più basso rendimento che i titoli Ue dovrebbero garantire. Inoltre, questi fondi potrebbero essere utilizzati per costruire un lungo piano di crescita ed evitare che le aziende trasferiscano i loro centri produttivi e di ricerca negli Usa.
Questo scontro tra Usa e Ue dovrà anche fare i conti con una forte incertezza politica: l’anno prossimo ci saranno le elezioni europee e anche le presidenziali americane. Senza dimenticare che mettere d’accordo più di 20 Paesi, come nel caso dell’Ue, non è affatto facile.
Sì, credo che nei vari Paesi membri stia cambiando la considerazione che si aveva della candidatura per Bruxelles, a lungo considerata una sorta di pausa necessaria e secondaria rispetto a una carriera politica interna. Se l’Ue usa bene i poteri che potenzialmente ha, allora diventa molto più importante essere a Bruxelles piuttosto che a Roma, Berlino, Parigi, ecc.
(Lorenzo Torrisi)
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