Nella Grecia antica, il nome “liceo” indicava la località dove Aristotele insegnava filosofia. Da qui la stretta connessione, anche in Italia, tra l’insegnamento liceale e le discipline umanistiche, in contrapposizione agli istituti tecnico-professionali dove queste ultime hanno minor spazio a tutto vantaggio di quelle strettamente connesse ai lavori manuali e al mondo produttivo in senso stretto.
Denominare “liceo” una scuola (per altro solo immaginata) che a tutti gli effetti si presenta come tecnica o professionale, come ha fatto ieri Giorgia Meloni in visita al Vinitaly di Verona, sembra dunque un capovolgimento di prospettiva.
Tuttavia, nel chiamarlo “liceo del Made in Italy” e riferendosi a tutto il complesso mondo dell’enogastronomia, il primo ministro ha precisato che “non c’è niente di più profondamente legato alla nostra cultura”. Proprio niente niente diremmo di no (dove mettiamo le discipline umanistiche, allora?), ma possiamo ammettere che la battuta si riferisse proprio al contesto ambientale in cui è stata pronunciata e dunque ci sta: il comparto vitivinicolo italiano impiega poco meno di un milione di operatori e con etichette di assoluto prestigio internazionale in tutte le Regioni va considerato ambasciatore del made in Italy nel mondo, alla pari della Ferrari o di certi marchi di alta moda.
Del resto, siamo il Bel Paese proprio per questo, vini compresi e, si sa, in vino veritas. Però mescolare pane e focaccia può generare confusione, nel senso che chiamare qualsiasi scuola media superiore col nome di “liceo” – si è cominciato a farlo una dozzina d’anni or sono con l’allora ministro Gelmini e con la variazione da istituto magistrale a liceo delle scienze umane – significa anzitutto confermare quanto si vorrebbe, invece, negare: cioè che gli istituti tecnico-professionali sono un gradino sotto ai licei propriamente detti.
Sempre a Verona, il ministro Santanchè ha parlato di “istituti tecnici distrutti” addossando la colpa, genericamente, alla sinistra. Non entriamo nel merito politico, ma la responsabile del dicastero del Turismo forse ignora che nell’ultimo quarto di secolo gli Itis hanno fatto passi da gigante per togliersi di dosso la nomea di “scuole di serie B”, così come gli Ipsia che occupano un gradino ancora inferiore. E che, viceversa, i licei poco conservano del rigore culturale che ne caratterizzò gli inizi, in Italia ormai un secolo fa.
È una considerazione di miglioramento molto generica, s’intende, ma il vero problema sta nel fatto che è la scuola italiana in quanto tale ad essere malata, per tutta una serie di ragioni che più volte sono state espresse su queste pagine da diversi autori. Non sarà certo cambiando un’etichetta che si miglioreranno le cose in fatto di istruzione, come non si migliorano sostituendole su una bottiglia di vino. Un qualsiasi rosatello da quattro soldi venduto in cartone non sarà mai un Brunello di Montalcino.
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