Un vento freddo, con temperature polari, ha accompagnato la notte tra il 5 e il 6 aprile i tanti aquilani, ma non solo loro, che si sono ritrovati insieme a memoria del terremoto e dei suoi morti.
Un sottile filo rosso ha unito la città dell’Aquila alla Siria e alla Turchia. In comune lo stesso dramma, fatto di tanti morti, di un dolore immenso, di lacrime per chi non c’è più.
Cansu Sonmez, ricercatrice turca al Gran Sasso Science Institute, originaria di Smirne, ha acceso con la sua fiaccola il braciere della memoria. Accanto a lei Rasha Youssef, siriana, ingegnere chimico industriale, che lavora da diversi anni in città, operando anche presso l’università. Al loro fianco anche un rappresentante dell’ambasciata turca, il primo segretario Hasan Enes Mabocoglu. Un filo rosso che non si spezza.
Persone accomunate dalle stesse esperienze e dallo stesso dolore. Un terremoto che 14 anni fa ha portato via 309 persone all’Aquila e migliaia più recentemente in Siria e Turchia.
Una lunga fiaccolata nella notte fredda dell’Aquila, alla vigilia della settimana santa. Passi cadenzati nel silenzio sulla strada illuminata dalle fiaccole, mentre nella testa di molti risuonavano ancora le parole dell’arcivescovo dell’Aquila, il cardinale Petrocchi, dette durante l’omelia nella messa di commemorazione il pomeriggio nella Chiesa delle Anime Sante. Un confronto tra storie personali, tra il dolore di chi è rimasto e chi invece non c’è più: “Tra quelli che, varcando la frontiera della morte, sono entrati nell’eternità e noi che camminiamo nel tempo resta aperto il grande ‘ponte’ della comunione, che rende possibile lo scambio di pensieri, di aiuti e di affetti. Ecco perché nella commemorazione di stasera non parliamo ‘di’ loro, ma parliamo ‘a’ loro. Tra i nostri cari che vivono ‘lassù’ e noi che attraversiamo i nostri giorni ‘quaggiù’ permane il vincolo della prossimità spirituale e fraterna”.
Oggi durante il percorso della fiaccolata che porta verso il giardino della memoria, dove sono incisi tutti i nomi delle persone decedute, si è scoperta una città nuova, che è rinata dalle macerie. Palazzi che hanno abbellito il capoluogo abruzzese, in mezzo ancora qualche gru, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione pubblica, quella delle chiese anche. Tutte ricostruzioni che hanno dovuto combattere e stanno ancora combattendo contro pastoie burocratiche, sostenute dalla difficoltà di chi prepara i progetti ma deve continuamente e rivederli, riaggiustarli, correggerli. Nella piazza principale dell’Aquila la ferita più grave è ancora quella del Duomo, inserito in un aggregato che comprende anche la casa vescovile e l’intera curia. Finalmente si è arrivati al progetto e si spera a breve di vedere operai e lavorare nel cantiere. Riconsegnare alla città e ai suoi cittadini la cattedrale nella piazza principale sarà il segno di una città che è ripartita verso nuova vita, mantenendo nel cuore la memoria di chi non c’è più. Continuando, come ha detto il cardinale Petrocchi, a parlare a loro e non di loro.
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