Nell’ambiente scolastico, e non solo, ha suscitato scalpore la recente lettera aperta degli studenti del Liceo Berchet di Milano. Nel testo condiviso e firmato da oltre 500 studenti si dice che “nell’ultimo periodo è maturata la consapevolezza di una situazione di malessere psicologico individuale e collettivo causata da un approccio inadeguato di alcuni professori (soprattutto nei confronti delle classi ginnasiali) che tramite un metodo educativo oppressivo e, a livello umano, a tutti gli effetti alienante, non favoriscono un ambiente sereno adatto all’apprendimento”.
Stress, ansia e modalità ottocentesche creano disagio, disaffezione e abbandoni scolastici. Tale situazione, a ben vedere, non riguarda solo il Berchet, ma molti istituti scolastici da Nord a Sud. Gramellini, a tal proposito, ha scritto: “Non saprei come aiutare i ragazzi a farsi una corazza, ma è riduttivo derubricare le loro ansie a paturnie di viziati”.
Che cosa sta succedendo, dunque? Perché questo malessere?
Non si possono dare, certo, risposte semplici a questioni così complesse che toccano tutta la comunità scolastica, interrogando ognuno in profondità. Bisogna allora affrontare, sia pure parzialmente e provvisoriamente, i nodi attuali nei diversi livelli di attenzione (scolastico, psicologico, sociale, esistenziale).
In ordine al livello scolastico, bisogna dire che l’attuale approccio pedagogico complessivamente cognitivista vede, effettivamente, soprattutto la testa dell’alunno e solo recentemente si è iniziato a parlare di intelligenza emotiva (Goleman) e di character skills. Naturalmente, l’impianto personalista e comunitario è stato del tutto trascurato dal finto neutralismo culturale. Tuttavia, mai come in questo periodo, sono stati portati avanti dai collegi docenti studi e approfondimenti sulla valutazione, sulle griglie, sull’attenzione agli alunni con certificazione Dsa o a quelli con bisogni educativi speciali. Nelle scuole, inoltre, agli alunni con forti difficoltà si cerca di proporre il riorientamento, per favorire il successo scolastico. A fronte di un impegno così massiccio, tuttavia, si nota sempre più la richiesta di un successo garantito a tutti costi. Si registra perciò una maggiore frequenza nelle polemiche dei genitori, oltre al numero di ricorsi finali o istanze per vedere i compiti in classe. Non si accetta, insomma, che qualcuno che non è mai solo qualcuno possa dire “suo figlio non va bene” o che un consiglio di classe, a maggioranza, si esprima con la dicitura “non ammesso”.
Non viene riconosciuta l’autorità come valore significativo. Del resto, chi sono oggi le autorità? Non più intellettuali, docenti, medici, tutori della sicurezza, ma influencer o persone telegeniche della fiera della vanità.
L’altro nodo è quello psicologico. Effettivamente, gli adolescenti della generazione Dad, rispetto al passato, reggono meno lo stress di una verifica o di un voto negativo. Sono spesso figli unici di famiglie che fanno fatica a dire no e a dare le ragioni adeguate di un no. O figli di famiglie in crisi che non danno obblighi, riservando solo prescrizioni minime. Tali adolescenti non riescono più a capire il valore della fatica e del sacrificio. Il principio di piacere, assicurato a costo zero, prevale sul principio di realtà. Gli studenti non colgono, perciò, che l’apprendimento richiede un costante esercizio della volontà o che i risultati possono arrivare in ritardo, dopo avere imparato dal negativo.
E tuttavia, nonostante tali criticità, non si può e non si deve perdere una generazione così particolare. Gli studenti vanno introdotti alla realtà, accompagnandoli nella costruzione del ruolo di studente, oggi, non più scontato. Lezioni preparatorie al metodo di studio, alle difficoltà di una materia e all’accettazione dei codici disciplinari potrebbero essere interessanti. Andrebbe poi integralmente rivisto il ruolo della scuola media inferiore, favorendo il raccordo effettivo con le scuole superiori e anticipando gradualmente i carichi di lavoro che i ragazzi troveranno nei licei. Oggi, infatti, le scuole medie inferiori sono un mero contenitore dove entra tutto, meno che il rafforzamento in materie strategiche per la conoscenza e la crescita.
Per quanto riguarda il nodo sociale, va detto che già prima del Covid si parlava di una “generazione di sdraiati”, di una “generazione scialla”. Una generazione disimpegnata, caratterizzata dal rapporto mediato con l’altro dagli onnipresenti social. Ragazzi che soffrono per un like non ricevuto o per i giga terminati trovano insopportabile un rimprovero. I figli di un mondo di tanti, troppi Peter Pan che dice soprattutto: “ho mangiato questo, ho visto quello, ho comprato quell’altro” non si trovano a loro agio con beni non visibili e non attingibili, immediatamente.
La generazione degli studenti attuali, inoltre, è messa in crisi da una società radicale di massa che propone il “tutto va bene”: cannabis libera, alcol al sabato sera senza limiti, abbassamento della precocità sessuale con occhio complice dei genitori, fluidità nei rapporti, utero in affitto e se proprio va male, suicidio assistito. Una società narcisista e liquida in cui si è tra tanti, ma sempre soli. In una società così poco adulta, alla scuola si chiede di essere fonte unica di socializzazione, guidata e vigilata, per arginare il nulla. Ecco perché al disagio degli studenti si aggiunge spesso quello di tanti docenti vicini allo scoppio.
Tutti questi aspetti, certamente veri, rischiano tuttavia di non far vedere il nodo esistenziale, quello più profondo. Nonostante tutto e tutti, i nostri studenti cercano punti fermi nella vita e personalità che abbiano una forma. Hanno bisogno come il pane di maestri. Tutti hanno guardato Sanremo e hanno sentito il cantante che avrebbe voluto twerkare davanti a Mattarella. Pochi giornalisti hanno sottolineato il passaggio dalla libertà della Costituzione ottenuta col sangue ai “mi piace” ottenuti con l’idiozia. I nostri studenti sono stati affascinati da alcuni protagonisti della tv per un attimo, sono stati colpiti dai trasgressivi che non hanno più niente da trasgredire, vista l’omologazione imperante. Poi li hanno dimenticati, perché non hanno proposte di vita, solo fuochi fatui.
Di fronte a questo vuoto, quello strano buco nero, cioè, che fa vagare senza meta e senza impegno in maniera accidiosa, bisogna porsi. La questione educativa è un’urgenza troppo importante per essere trascurata. Cognitivismo, flipped classroom, Lim, scuola senza zaino: nomi fatti per non ricordare la questione vera. E allora, torniamo alle domande concrete. A che serve la scuola? Perché Leopardi parla ancora oggi? Che cosa vuol dire educare? Che cosa significa essere genitori o docenti e non lavoratori della conoscenza, come dice qualcuno?
Si tratta di passare, perciò, dalla provocazione e dalla richiesta di una lettera aperta a domande per troppo tempo chiuse e censurate.
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