L’Italia è ai minimi storici per natalità. Tutti si indignano, ma di ricette c’è solo l’ombra. Non attaccano il problema: il calo demografico è un sintomo, e occorre attaccare la malattia, non i suoi segnali. Curare la denatalità con misure economiche è come curare l’appendicite con le carezze: occorre il chirurgo, non solo far passare per un poco il dolore. Perché il tasso di figli per donna in Italia è 1,25, cioè ogni 8 coppie nascono 10 bambini; ma la meta che vorremmo raggiungere è quella dei Paesi dove il welfare è migliore, come la Francia. Attenti, che anche lì le cose non sono messe bene: il tasso è di 1,8 cioè, ogni 8 coppie nascono solo 15 bambini, al disotto del tasso di crescita ma anche del tasso di non estinzione.
L’inverno demografico è il sintomo di una malattia culturale, che non si cura con le cure palliative economiche o strutturali, come gli asili nido o i congedi per maternità. Queste cure possono al massimo riportare le nascite da un tasso bassissimo ad uno bassino, cioè far scendere la febbre da 39 a 38; ma la malattia resta.
Quale malattia? Semplice: il crollo di contatto umano, l’estinzione della vita in comune. L’uomo è tutto contatto, ma ci hanno illuso che fossimo autonomi, che non necessitassimo di comunità; ci hanno illuso che siamo intelligenti, e che l’intelligenza sia saper applicare la logica, e che la logica applicata nella solitudine basti. Ma la logica da sola porta alla disperazione, come mostra l’evoluzione filosofica dei grandi logici come Ludwig Wittgenstein. L’uomo è tutto contatto: il bambino muore senza il contatto con la madre, i fidanzamenti si rompono se non c’è contatto fisico; i contratti si solidificano se si stringe una mano, non se si fa click col pc.
Invece siamo in un’epoca in cui nei Paesi occidentali, quelli che si credono evoluti, l’isolamento sociale è la norma, è normale, anzi non si vede una vita in cui l’isolamento non sia previsto. In fondo l’isolamento dell’epoca Covid ci ha colpiti ma non stupiti, perché già eravamo abituati all’estraneità reciproca. Tutto funziona nell’isolamento: la perdita di contatto tramite i social media, il cosiddetto smart working e la didattica a distanza, gli uffici sostituiti da call center. E tutto questo erode un pezzo dell’umano, del contatto umano, del cuore dell’umano; e genera denatalità perché l’uomo e la donna, che sono esseri sociali, fanno figli in un ambiente sociale, altrimenti i figli diventano solo un peso. Il figlio non è per natura solo figlio di sua madre, ma figlio di un popolo; altrimenti sarà un eterno profugo.
E la mancanza di contatto fa sparire il sollievo, la solidarietà e l’aiuto sociale, tanto che se ognuno vive rinchiuso in casa sua, perde del tutto la capacità di rivendicazione sociale. Questa è la seconda parte della malattia: sono spariti dall’orizzonte quotidiano i sindacati, i partiti, le parrocchie, i circoli, le famiglie: ne resta un vestigio, ne resta l’odore perché sono stati cose ottime, ma ora vivono nel ricordo o nella burocrazia che ne rammenta l’esistenza. E senza questi organi intermedi, che sono il fulcro di quel principio che si chiama sussidiarietà, l’uomo e la donna sono soli. E i figli sono solissimi. Questa malattia culmina con la perdita di entusiasmo. Perché avere figli è segnale di un’abbondanza di curiosità e aspettative, che nella solitudine spariscono.
Non ci vengano a raccontare che il problema è economico allora, perché è facile smentire ciò guardando il numero di figli che fanno i popoli meno “progrediti economicamente”. È un paradosso: chi è più povero fa più figli; ed è facile guardare questo con sguardo snob e un po’ razzista, e dichiarare l’equazione tanti figli uguale tanta ignoranza. Ma vuol dire esser miopi.
I grandi filosofi del secolo scorso già avevano previsto questo: bastava ascoltarli. Bastava ascoltare Gunther Anders, che parlava di un uomo che va sparendo sperando di diventare freddo, solo e asettico come le macchine che ha creato e che ora lo dominano.
Bastava ascoltare Jaques Lacan, che parlava della evaporazione (o “forclusione”) della figura del padre. Bastava ascoltare Marcuse, che parlava non solo di una società che si riduce all’adempimento della performance solitaria obbligata dal mercato, ma anche spiegava che la rivoluzione sessuale – con la conseguente denatalità – seppur nata bene, è diventata un oppio necessario al sistema mercantilistico per non vedere lo sfruttamento del capitale sull’uomo. Il Superuomo di Nietzsche rivisto dall’osservatorio dei giorni d’oggi non è il nichilista, ma è l’uomo comunitario, cioè colui che supera lo stadio di persa umanità.
Quindi basta con le cure palliative su un’Europa che sta lentamente eutanasizzandosi. Occorre riprendere i contatti, sporcarsi le mani di vita, accarezzare con mani cariche di curiosità le perfezioni e le imperfezioni altrui. Ma vediamo all’orizzonte solo lontani segnali di rinascita. Ci additano la Finlandia come Paese al culmine della felicità, dove la gente è tragicamente sola: ha il record europeo di possesso di armi e quello mondiale di suicidi.
Le rinascite nella storia non partono dalla volontà o dagli aiuti di Stato: chi dorme è destinato ad un sonno ancora più profondo. Le rinascite sono sempre partite da individui che hanno fatto incontrare le persone del loro popolo fra loro: da poeti nazionali come Petöfi in Ungheria o Senghor in Nigeria, da santi costruttori di monasteri come Benedetto o Francesco in Italia, da navigatori portatori di entusiasmo come Magellano in Portogallo, da filosofi come Gandhi in India, da governanti come Carlo Magno in Francia o Simón Bolívar in America latina, da predicatori come Martin Luther King negli Usa. Sono dei catalizzatori che risvegliano il fuoco sotto la brace, fuoco di un popolo ancora vivo ma incapace di vitalità. Ma oggi, in questo buio crollo di contatti e di nascite, ne vediamo all’orizzonte? E se ne vediamo, abbiamo il fiato di seguirli?
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