“Non è più tempo di politiche timide, non portano da nessuna parte. L’unico modo per invertire la tendenza è farla diventare una priorità per il Paese, investire tutto quello che serve per portare le politiche per le nuove generazioni, le politiche familiari e di conciliazione famiglia-lavoro a livello delle migliori eccellenze europee”. La cura indicata per contrastare il calo demografico in Italia, ormai diventato un crollo, è drastica: in termini di lavoro, conciliazione, sostegno ai giovani, occorre una rivoluzione. Anche gli ultimi dati demografici lo confermano: senza interventi decisi l’Italia va verso una situazione insostenibile dal punto di vista sociale ed economico.
Lo spiega Alessandro Rosina, professore associato di Demografia nell’Università Cattolica di Milano. Il governo Meloni, intanto, annuncia che “dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate”. Un problema che, nei fatti, finora è stato sottovalutato, ma che va affrontato quanto prima: ne va del futuro del Paese.
Professore, i nuovi dati sul calo demografico in Italia spostano qualcosa rispetto a una tendenza ormai codificata da qualche anno?
Ormai sono anni che l’Italia, dopo essere arrivata ai livelli di nascita più bassi di sempre essendo scesa sotto le 500mila nascite, ogni anno batte il record negativo. L’ultimo dato Istat sotto le 400mila nascite è in continuità con l’andamento negativo che ci ha portato a essere uno dei Paesi con il più basso tasso di fecondità in Europa e a rotolare sempre più giù.
Dunque nulla di nuovo in senso negativo.
Le cose vanno peggiorando di anno in anno. Dopo l’impatto della grande recessione 2008-2013 siamo andati a diminuire ulteriormente. L’altro punto che dovrebbe suscitare allarme, ma non credo che ci sia consapevolezza di questo, è che stiamo perdendo l’ultima occasione per invertire la tendenza delle nascite. Stiamo superando il punto di non ritorno. Dal 2014 in poi la popolazione italiana sta diminuendo e non tornerà a salire, perché gli squilibri prodotti nella struttura per età della popolazione, con tanti anziani e sempre meno giovani, fa sì che all’aumentare dei decessi corrisponda, più degli altri Paesi, una diminuzione della fecondità. E nemmeno più l’immigrazione riesce a compensare questo divario.
Poi è arrivata anche la pandemia.
Lì c’era la possibilità di iniziare una fase nuova, non in grado di far tornare a crescere la popolazione ma di ridurre gli squilibri tra anziani, sempre di più, e popolazione giovane al centro della vita lavorativa, che è sempre di meno. Ma non sta succedendo. Lo scenario è quello che ha prefigurato l’Ocse in un rapporto del 2019, nel quale si dice che se non cambiano le dinamiche l’Italia è il Paese che maggiormente rischia a metà di questo secolo, con un rapporto 1 a 1 tra persone in pensione e persone che lavorano. E questo rapporto è del tutto insostenibile, porterebbe all’implosione sociale del Paese.
Cosa succederebbe?
In un Paese con alto debito pubblico andrebbe a crescere la spesa per le pensioni e quella per la cura e l’assistenza della popolazione anziana. Negli altri Paesi non c’è questo debito pubblico e c’è una popolazione in età lavorativa ancora consistente, perché hanno evitato che la denatalità andasse a livelli così bassi. Noi avremo la stessa spesa di Francia e Svezia, perché aumenta la popolazione anziana, ma con un debito pubblico superiore e molta meno popolazione in grado di creare ricchezza, benessere e far crescere l’economia finanziando il welfare.
Ci farebbe comodo, per dir così, l’arrivo degli immigrati per tenere in piedi il Paese?
Bisognerà vedere se gli immigrati ci vorranno venire, in questo Paese. Se non si creano politiche adeguate per i giovani, per risolvere il problema abitativo, di conciliazione lavoro-famiglia, servizi per l’infanzia, politiche di congedi parentali che vengano incontro alle esigenze delle famiglie, questo varrà anche per gli immigrati. In un Paese con alto debito pubblico, forti squilibri demografici, che fa fatica a crescere, l’immigrazione più qualificata sceglierà altri Paesi. Semmai avremo tanti giovani italiani che se ne andranno.
Il sistema non sostiene le famiglie, ma il calo demografico non dipende anche da ragioni culturali? In fondo i nostri padri e i nostri nonni hanno fatto figli in una situazione economica peggiore della nostra.
Non possiamo confrontare l’Italia di oggi con quella degli anni Cinquanta e Sessanta. Possiamo confrontare la condizione di giovani e donne italiani con altri Paesi. È evidente che l’Italia degli anni Cinquanta è molto diversa da quella di oggi, ma questo vale anche per la Francia, la Svezia, la Germania.
Sì, ma per i giovani di oggi farsi una famiglia è ancora una priorità o lo è meno rispetto a prima?
In quel contesto culturale e sociale fare figli era parte delle scelte di vita che venivano prese in considerazione. Oggi non è più così, fare figli non è scontato, non è più una necessità. Ma questo vale anche per i giovani francesi, tedeschi, americani. Negli anni Cinquanta erano molte di più le opportunità che si potevano trovare lasciando la famiglia di origine e mettendo il proprio impegno in ambito lavorativo. Oggi usciti dalla famiglia di origine, nella quale i figli mantengono un loro benessere, non si trova quell’orizzonte di opportunità, di visione positiva del futuro. L’ultimo dato Eurostat fa vedere che il rischio di povertà dei giovani italiani è quello più alto in Europa. Se abbiamo la più alta percentuale di Neet, di giovani che non studiano e non lavorano qualcosa vorrà dire. Trovano molti più ostacoli nel diventare soggetti attivi.
Allora valgono sia l’aspetto culturale che quello economico?
L’aspetto culturale vale per tutti i Paesi: fare figli è meno una priorità.
Ma è perché ognuno pensa più a se stesso?
In una società in cui fare figli deve entrare in coerenza con le altre scelte, di benessere più generale, di solidità del mondo del lavoro e di realizzazione più ampia, questa condizione è più favorita negli altri Paesi, dove si creano le condizioni per avere figli. Il che non vuole dire che si arriva a tre o quattro come nel passato, ma almeno a due. In Italia ci si ferma a uno.
Dal punto di vista politico cosa deve fare il Governo per affrontare la situazione?
Bisogna dare il segnale forte che l’Italia investe su queste scelte. Sui servizi per l’infanzia dove si fa meglio? In Francia e in Svezia, dove la copertura nella fascia 0-2 anni è superiore al 50%, o in Italia dove è al 27%? Bene, allora dobbiamo convergere verso i livelli di quei Paesi. Rispetto agli aiuti economici come l’assegno di sostegno alla natalità, l’assegno unico universale, qual è il punto di riferimento? Forse la Germania, che dà oltre 200 euro per ogni bambino, invece di 50-75 euro come livello base come in Italia. Seguiamo il suo esempio. Dove si stanno sperimentando le politiche di congedi obbligatori di paternità? Nei Paesi scandinavi ma anche in Spagna, che ha portato a 16 settimane il congedo di paternità rendendolo equivalente a quello di maternità, con le prime sei settimane in cui possono prenderlo entrambi.
In Italia c’è un esempio che si può seguire, una realtà che si è già incamminata sulla strada del sostegno forte alla natalità?
Il Trentino è l’unica regione che si avvicina alla media europea, perché c’è un’attenzione continua a investire sulle politiche familiari, di autonomia dei giovani, di conciliazione anche attraverso il welfare aziendale. Lì ogni anno si cerca di sperimentare, di vedere cosa funziona per fare meglio l’anno dopo. In quel contesto le famiglie fanno la scelta di avere un figlio in condizioni di minore incertezza e con più fiducia.
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