La tragica vicenda che ha visto in Trentino protagonista l’orsa JJ4, per la quale il Tar ha sospeso (per ora) l’abbattimento, indurrebbe a parecchie riflessioni, che non spettano a noi. Il nostro preciso e tutt’altro che semplice compito settimanale, cari lettoràstri (amici lettori dei ComicAstri) è quello di strapparvi, financo con le unghie e coi denti, uno straccio di sorriso, nel bel mezzo di una settimana (la vostra; noi, oltre questo metodico lazzo, ci possiamo permettere il perenne sollazzo) irta di impegni lavorativi, bambini da ritirare (a scuola o al campetto non ha importanza), riunioni condominiali, visite mediche e quant’altro.
Ma se proprio dobbiamo schierarci, vi sia ben chiara una cosa: tra Hannibal Lecter e la capra più mansueta del mondo, se mai fossimo costretti a sacrificarne uno dei due, noi opteremmo sempre per la seconda. A malincuore, ma senza indugi. Non perché amanti dei serial killer, ma in nome del loro essere uomini. E figli di Dio, nonostante gli abominevoli delitti. La finiamo qui, riprendendo da dove siamo partiti.
E se fosse vero? Proviamo solo per un attimo ad immaginarlo: se fosse vero che il comportamento aggressivo, non certo da orsolina, dell’orsa sia stato determinato dai cambiamenti climatici? Potrebbe essere plausibile l’idea che gli animali stiano cambiando abitudini per colpa del riscaldamento globale?
In Francia ha fatto molto discutere un documentario dal titolo «Frère alligator, sœur zèbre» (Fratello alligatore, sorella zebra) della regista Miou Kitekàt. Presentato a Cannes lo scorso anno nella sezione «Un peu de can can», ha riscosso un discreto successo, e polemiche a non finire, per un certo – ça va sans dire – sbilanciamento animalista.Stando ai fatti riportati, e non solo nel suddetto documentario, la situazione è sempre più grave: si pensi solamente alle numerose specie in via di estinzione.
Di questo e d’altro abbiamo affabilmente conversato insieme alla dottoressa Amabile Cinciallegra, del dipartimento di Etologia dell’Università di Cervo Ligure, in provincia di Imperia.
Dottoressa buongiorno. Non ci dilunghiamo in convenevoli, perché lo spazio è tiranno. Le domandiamo con apprensione: ci sono davvero segnali inconfutabili di mutamenti invero preoccupanti?
Direi che ce n’è ben donde. Per entrare nel merito, iniziamo da un animale comune come il procione. Lo si può trovare in molti nostri ambienti, dalla Lombardia all’Emilia Romagna, alla Toscana. Ebbene, alcuni miei diretti collaboratori hanno potuto osservare come negli ultimi 15 anni la cura del sé di questo almeno apparentemente affabile onnivoro di mezza taglia sia sensibilmente diminuita; l’acqua gli è diventata nemica e sta perdendo persino l’abitudine di sciacquare il cibo, gesto che ha sempre caratterizzato la sua specie; un atteggiamento che sta prendendo i connotati dell’irreversibilità, a tal punto da indurre la comunità scientifica internazionale a interrogarsi sull’opportunità di commutargli il nome da orsetto lavatore a orsetto sporcaccione.
Quanto ci ha descritto attiene a un animale abbastanza comune: ha qualche altro esempio da proporci, preferibilmente tratto da studi inerenti a specie di altri continenti?
C’è una ricerca dell’Università del Madagascar sul geco satanico dalla coda a foglia, che ha destato una particolare preoccupazione da parte degli scienziati locali. Per quei pochissimi che lo ignorano, si tratta di un animale dall’aspetto vagamente macabro: le sue spine gli sporgono da tutto il corpo, permettendogli di mimetizzarsi proprio come una foglia secca tra i rami degli alberi. O almeno questo accadeva sino a inizio millennio. Le precise osservazioni che quasi quotidianamente abbiamo la possibilità di esaminare indicherebbero che ora l’animale preferisce assumere le sembianze di una pesca o di un mango, facendosi così docilmente divorare da altri animali dalle dimensioni più corpose. Un atteggiamento che col tempo metterà a rischio l’esistenza della sua specie.
Prosegua pure con altri esempi…
Prendiamo la nylanderia fulva, meglio conosciuta come formica pazza al lampone. Originaria del Sudamerica, per meglio proteggersi dalle altre specie da qualche anno ha iniziato a fabbricare, in prossimità dei formicai e quasi a loro difesa, una specie di mallo, molto simile a quello delle noci, ma velenosissimo. Gli indigeni, inizialmente ignari, hanno cominciato a usarlo per la produzione di un nocino locale. Con conseguenze nefaste…
Vuole raccontare ai lettori del Sussidiario ciò che ha raccontato anche a noi, in merito ad altre specie, peraltro comunissime?
Non posso, in questo breve excursus, non citare quanto accaduto nella vicina Svizzera: a Grindelwald, nella regione dell’Oberland, un contadino sessantaquattrenne, noto a tutti i suoi concittadini per il suo umore sempre cupo, nonché perenne molestatore delle sue vacche, avrebbe visto queste ultime produrre – per ripicca? – latte in polvere cagliato.
Tutti segnali, questi, che non vanno assolutamente disattesi. Ma ci faceva osservare come anche il mondo vegetale non sia da meno, in fatto di fenomeni allarmanti legati al climate change.
Vi cito per iniziare una notizia che arriva dal Caucaso: a Baku, una coltivazione di orchidee scimmia avrebbe cominciato a produrre banane, per ora non edibili, ma c’era da aspettarselo.
Siamo in chiusura. Qual è il fenomeno che recentemente le ha destato maggior meraviglia (o preoccupazione)?
Si tratta di quanto avvenuto in una fattoria a 180 chilometri da Melbourne: una zona ricchissima di artocarpus (o alberi del pane). Qui si è potuta osservare una, per ora solo curiosa, metamorfosi: i fiori, di solito molto piccoli, hanno preso abbastanza rapidamente a cambiare forma, dimensione e colore. Mentre la natura li ha originariamente creati e riuniti in infiorescenze a forma di spiga, che hanno una lunghezza di una decina di centimetri, esperti floricultori locali, coadiuvati dagli scienziati del locale ministero dell’Agricoltura arrivati in supporto, hanno notato come le infiorescenze tendano a mutarsi in una forma tondeggiante, un unico corpus di colore rubino vivace, con pallini biancastri, posti su tutta l’estensione della forma stessa. Tant’è che un occhio non esperto potrebbe scambiare questa incredibile e prodigiosa mutazione (di origine climatica? È presto per dirlo) in qualcosa di molto familiare. A motivo di ciò, a queste piante è stato già dato il nome latino di porcuscarpus, che potremmo prosaicamente tradurre in… albero del salame.
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