L’altro ieri il Financial Times ha raccontato ai propri lettori di un inusuale cambio di paradigma in Cina. Nelle ultime settimane le televisioni di Stato e le agenzie di stampa cinesi hanno pubblicato dozzine di profili di nuovi laureati che hanno fatto fortuna in lavori “manuali” rinunciando a una carriera coerente con il percorso di studi.
Il mese scorso la Lega della gioventù comunista cinese ha criticato i giovani laureati perché insistono nelle proprie aspirazioni di carriera invece di “avvitare viti in fabbrica” e ha esortato i giovani a “svestire il completo, rimboccarsi le maniche e andare nei campi”. Il principale quotidiano finanziario europeo ha poi dato parola a un professore di scienze politiche della “City University di New York” secondo cui “investire in educazione non garantisce più un ritorno elevato”.
I fatti raccontati aprono uno spiraglio in uno dei temi più interessanti che si registrano sotto la superficie dei dati sul mercato del lavoro anche in Occidente. La “wage inflation”, la crescita dei salari, prende le mosse non solo dalla ripartenza e dalle politiche fiscali e monetarie degli ultimi trimestri, ma anche da una fase, quella del 2020-2021, che ha visto l’uscita di un numero eccezionalmente alto di lavoratori esperti soprattutto nelle professioni manuali. Uno dei casi più eclatanti, anche per motivi settoriali specifici, è quello delle squadre che lavorano nel settore petrolifero americano.
La composizione della popolazione in età da lavoro, a causa del crollo della natalità, nei prossimi anni determinerà l’uscita di persone che sono occupate da decenni e che sono entrate nel mondo del lavoro ben prima che avesse inizio la “new economy” oppure ben prima che la carriera di “influencer” fosse una delle possibili ambizioni. Anche in Italia si lamenta la difficoltà di reperire figure specializzate in settori che pure offrono buoni stipendi anche se non incontrano le aspettative di chi aspira a lavorare “dietro una scrivania”. Dietro i consumi degli adulti di oggi c’è un numero decrescente di lavoratori di domani a causa, di nuovo, della denatalità e questo ha un effetto anche economico soprattutto sui beni meno discrezionali. A latere, tutto questo è un punto di vista eterodosso per osservare il cortocircuito delle banche centrali che in qualche modo, stampando moneta, è come se rimpiazzassero artificialmente i consumatori che non sono nati.
Quello che conta è che i trend demografici, quelli geopolitici, con la ristrutturazione delle catene di fornitura e la necessità di duplicare le fabbriche, e quello che è successo nel 2020/2021 aprono un problema che si rende evidente in uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro nei settori “tradizionali”.
La soluzione cinese sembra essere una campagna statale per invertire la tendenza; per ora l’iniziativa rimane nell’ambito del marketing, ma non è escluso che possa evolvere in qualcosa di più cogente. La risposta cinese è una delle tante opzioni possibili per un problema che è anche occidentale. L’immigrazione è un’altra opzione con cui curare, in parte, il problema almeno dove il lavoro manuale non è qualificato. Il Reddito di cittadinanza da un lato consente di prolungare le aspirazioni di una carriera coerente con il percorso di studi, qualunque esso sia, e dall’altro permette forse di integrare con soldi pubblici alleviando lo squilibrio tra domanda e offerta in alcune attività.
Contrariamente alla scuola di pensiero maggioritaria e a ciò che sembra più intuitivo la detanalità non aumenta la disponibilità di beni, tenendo bassi i prezzi, ma ottiene l’effetto opposto nel breve medio periodo a meno di ipotizzare una volontaria riduzione dei consumi di chi “rimane”. Nel lungo periodo, una generazione, invece la denatalità è un’enorme spinta deflattiva che si dovrebbe scaricare in alcuni settori in particolare come l’immobiliare che è, almeno dal 2008, l’oggetto degli interventi di supporto delle banche centrali; qui si registra il circolo vizioso più evidente. Il problema economico e sociale che viene prima di tutti è esattamente questo squilibrio tra lavoratori che entrano nel mercato del lavoro e quelli che escono, tra il numero di chi produce beni e quello di chi li consuma. Dalla Cina in giù se ne sono accorti tutti.
Non ci sono soluzioni facili e quelle che lo sembrano fanno una più paura dell’altra.
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