I cardinali Mario Grech, segretario generale del prossimo Sinodo dei vescovi, e Jean-Claude Hollerich, arcivescovo gesuita del Lussemburgo e relatore dell’assemblea generale del 2023, hanno annunciato in conferenza stampa alcune importanti modifiche della costituzione apostolica Episcopalis communio del 2018, promulgata da Papa Francesco per riformare lo strumento sinodale.
Le modifiche sono sostanzialmente due e riguardano l’abolizione della presenza all’assemblea generale dei dieci chierici appartenenti a istituti di vita consacrata, sostituiti da cinque religiose e cinque religiosi membri di diritto dell’assemblea e, quindi, con regolare diritto di voto, e l’abolizione degli uditori, sostituiti con 70 membri non vescovi individuati dal Papa in un elenco di 140 personalità indicate dalle diverse conferenze episcopali continentali secondo il criterio della parità di genere e della giovane età. Si tratta di membri preparati, formati nelle diverse questioni sul tavolo, consapevoli del processo sinodale degli ultimi anni, con regolare diritto di voto.
Con uno slogan si potrebbe dire che il Sinodo dei vescovi si trasforma e diventa, semplicemente, il Sinodo, un’assemblea generale della Chiesa che – servatis servandis – inizia a ricordare sempre più un parlamento, con donne e uomini che dialogano e propongono al Papa soluzioni e idee sulle questioni che il Pontefice stesso ha chiesto di analizzare.
Come sempre non mancano, da destra e da sinistra, le critiche alle scelte papali: da destra ci si chiede se questo non rappresenti una riduzione del ministero episcopale codificato dallo Spirito Santo e dotato di quella grazia di stato che aiuta i soggetti a prendere le decisioni più sagge e più prudenti per la vita della Chiesa; ci si domanda anche se – in prospettiva – non si apra la strada a forme di democrazia rappresentativa aliene alla struttura giuridica e ontologica della Chiesa. Da sinistra, per contro, ci si interroga sul valore di portare al Sinodo persone scelte per cooptazione, voce di un popolo che è quello più facilmente strumentalizzabile dal clero, senza alcuna procedura trasparente se non quella del discernimento ultimo del pontefice; interroga anche il fatto che – comunque – i 70 membri rappresentano il 25% dell’assemblea, monopolizzata come sempre dal 75% di vescovi che potranno dire di aver ascoltato il popolo, pur continuando a fare quello che riterranno più opportuno.
Il punto di fondo di tutta questa vicenda è che ci troviamo di fronte alla vera riforma di Papa Francesco, probabilmente quella che, di fatto, è destinata a segnare i prossimi secoli di vita della Chiesa: una riforma maturata nel silenzio, un riforma che lo stesso Papa ha come “scoperto” arrivando a modificare una sua stessa costituzione apostolica di cinque anni fa, quasi che anche lui non fosse padrone di questo cambiamento, ma lo sorprendesse davanti ai propri occhi.
Sbagliano coloro che credono che il cambiamento stia nei laici che votano o nelle donne che partecipano attivamente; il cambiamento riguarda piuttosto la modalità di esercizio del ministero petrino. Se si riflette senza facili partigianerie, ci si accorgerà che quella dell’esercizio del ministero petrino è l’unica vera riforma auspicata da Giovanni Paolo II nella fase matura del suo pontificato, nel 1995, con l’enciclica Ut unum sint. E riforma del ministero petrino è anche l’atto delle dimissioni di Benedetto XVI: il papa polacco individuava la necessità di un cambiamento dall’interno del dialogo ecumenico, il teologo bavarese – invece – ha come disegnato un perimetro di tale ministero che va al di là della singola persona, ma che diventa un locus theologicus in cui sia possibile immaginare una coabitazione di più soggetti.
Va detto che si tratta di riforme pensate o abbozzate, niente di sancito o di definitivo, eppure è dal Vaticano I – che ha proclamato l’infallibilità del Romano Pontefice – che la Chiesa si interroga su come esercitare tale infallibilità. Il Vaticano II ha risposto con la collegialità, Wojtyła con l’ecumenismo, Ratzinger nella pluralità. Francesco aggiunge ora un tassello tutt’altro che banale: la sinodalità, uno strumento in cui il popolo e il pastore dialogano con franchezza e restituiscono al pontefice tutti gli elementi per assumere una decisione.
Qualcuno potrebbe pensare che ci siano problemi più seri nel nostro tempo, ma non è così. Infatti non c’è niente di più serio che capire come sia possibile, in un secolo complesso segnato dal dominio della tecnologia e dalla sovraesposizione dell’opinione pubblica (che generano connubi mostruosi come quello del caso Orlandi), comprendere quale sia la strada giusta. È una questione metodologica: come può oggi la Chiesa abitare il tempo presente senza smarrire la sequela di Cristo? Come possiamo essere certi nel tempo delle grandi incertezze?
Francesco, sulla scia dei predecessori, indica la via: la certezza non proviene da un’ideologia o da un sentimento, la certezza proviene da una comunione. Le forme di questa comunione sono ancora tutte da scoprire. E quello di queste settimane non è altro che un tentativo, da parte del Papa, di non perdere di vista Cristo. Che non indugia sulla penuria dei tempi, ma continua a correre.
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