È il 13 marzo 1975. Entro nella facoltà di Fisica a Milano. È buio, sono circa le 18. Con me, altri che frequentano i corsi serali, tutti studenti lavoratori. C’è una strana aria, cupa, come la giornata, plumbea e uggiosa. La saletta studenti all’ingresso, il ritrovo dei militanti di Avanguardia Operaia, è stranamente vuota. E subito si diffonde la voce: “Hanno massacrato un ragazzo poco lontano da qui. Era un fascista”. Nulla di nuovo sotto il sole. Le aggressioni, i cortei, le rivendicazioni sono all’ordine del giorno. E non fanno più notizia: uno in più, uno in meno. Invece è proprio lì, in quella saletta che matura l’aggressione a Sergio Ramelli, 18 anni, militante della sezione giovanile del Movimento sociale italiano di Milano. Colpito con chiavi inglesi che gli spaccarono la testa e morto il 29 aprile, dopo più di un mese di coma.
Ma per capire i motivi dell’aggressione occorre andare indietro nel tempo, a quando Ramelli è studente del “Molinari”. Un istituto tecnico milanese che, dopo il ’68, grazie anche a un gruppo di professori, diventa una cellula di Avanguardia Operaia. Qui il movimento extraparlamentare ha una delle sue sedi e gode di una grande presa sugli studenti.
Ma non tutti la pensano come loro. Fra questi, Ramelli che incautamente scrive un tema contro le Brigate rosse. Non solo: accusa lo Stato di non aver partecipato al funerale di due militanti missini uccisi sempre dal gruppo terroristico. Quel tema è l’inizio della fine. Viene esposto in bacheca. Ramelli viene prelevato dalla sua classe e sottoposto a un processo politico durante un’infuocata assemblea studentesca. In sua difesa solo lo sparuto gruppo di Comunione e Liberazione guidato da un sacerdote, don Edo Canetta.
La famiglia decide di fargli cambiare scuola. Ramelli, insieme al padre, va al Molinari per farsi consegnare i documenti. I militanti di Ao, avvertiti, lo accolgono. I due passano davanti a un corridoio umano urlante: “Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi e poi sarete appesi”. Calci, pugni, sputi e spintoni.
Sergio comincia una nuova vita in un istituto privato ma il suo ricordo rimane impresso nella memoria di chi era al Molinari. Fra questi Roberto, iscritto a Fisica e mio compagno in università. Militante di Avanguardia Operaia, è il capo del servizio d’ordine di Città Studi. Un gruppo molto attivo nelle manifestazioni e nei cortei. Sempre a Fisica staziona un gruppo di militanti iscritti a Medicina. Me li ricordo ridere e scherzare, oltre a “limonare” con le loro ragazze. Sono quasi tutti figli di medici, ricchi e già predestinati a una carriera luminosa. Ma sono molli, flaccidi, poco combattivi. Occorre svegliarli. Per questo Roberto ordina loro un’azione dimostrativa. Devono pestare un fascista per dimostrare di essere degni del loro ruolo nel servizio d’ordine. Viene individuato Sergio Ramelli e così si studia un piano d’attacco.
Il commando è formato da otto persone, sette uomini e una donna. Il 13 marzo 1975 si appostano sotto casa sua. In due si staccano e lo colpiscono con le chiavi inglesi alla testa. Ramelli si accascia al suolo. Un’ambulanza, avvertita dal portinaio dello stabile, lo porta all’Ospedale Maggiore dove viene portato d’urgenza in sala operatoria. Ci starà per cinque ore. È l’inizio di un calvario che si conclude il 29 aprile.
La polizia, subito dopo l’aggressione, inizia le indagini ma non viene a capo di nulla. L’omertà fra i compagni regna sovrana. Solo molti anni dopo, nel 1987, grazie a un gruppo di pentiti, si arriva al processo. Nel frattempo i membri del commando hanno fatto carriera: medici stimati, ottimi professionisti, padri di famiglia. Tutti vengono riconosciuti colpevoli e condannati a vari anni di carcere.
Roberto, capo di Ao di Fisica e mandante dell’aggressione, nel frattempo abbandona la militanza politica. Si sbanda e inizia a consumare droga come tanti ex militanti di sinistra. Nel 1981 si chiude nel garage di casa e si uccide con i gas di scarico della macchina.
Anni prima, nel 1977, sul quotidiano Lotta Continua compare la lettera di un militante di Ivrea che commenta il suicidio di un altro ragazzo con lo stesso nome, Roberto: “Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato… Ce l’avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno: ucciso dai fascisti, dalla polizia e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore… Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l’angolo ad attenderci cortese e sorridente. Si avanzava verso lo ‘scontro decisivo’. Ma molti ‘scontri decisivi’ passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava per alcuni la misura di un fallimento… Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati ‘disumani’, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo con cui si sono trattati i compagni ‘silenziosi’ che non parlavano quasi mai alle riunioni, gli ‘stupidi’ perché quando parlavano dicevano (male) due o tre cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leader depositari del sapere e del potere: disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie, o lettori dei nostri volantini, o persone a cui spiegare la rivoluzione… Oggi, tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così: c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi”.
Anche Roberto si era perso. Quando lo vedevo in università era sempre inquieto, mai sereno. Quel desiderio di una società più giusta e vera si era smarrito nei meandri di un’ideologia che, come commentò don Giussani, “Non risponde alle mie esigenze del presente ma a quelle, presunte, della società futura. Il vuoto di oggi è riempito dalla lotta per il domani: ma le mie domande di senso e di felicità non aspettano. Il mio presente non ha risposte e il futuro della società si trasforma col tempo da immagine a miraggio. Ecco dove nasce la tragica delusione: ciò che si è già rivelato menzogna per il mio presente appare come possibile menzogna per il futuro della società”. E ai ragazzi che l’ascoltavano dopo aver commentato la lettera del compagno di Ivrea disse: “Questa è, in estrema sintesi, la storia dell’extraparlamentare Roberto. E la nostra storia? Ho ascoltato le osservazioni giuste – tutte giuste! – di stasera. Ma vi prego di chiedervi, tornando a casa: ho abbracciato la Verità che, senza meriti, mi è venuta incontro nel presente? Provo pietà per Roberto, che non l’ha incontrata?”.
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