Gli anniversari servono a riflettere. E limitatamente alla questione che qui ci interessa – la scuola “di mezzo” – non è semplice portare un contributo sintetico. In questo contesto di brevità bisogna considerare due variabili emergenti: lo scopo della scuola secondaria di primo grado e un approccio esperienziale che può aiutare nella riflessione.
Come sottolinea sul sito istituzionale il Mim, va subito rappresentato che tale segmento scolastico conclude il primo ciclo di istruzione iniziato con la scuola primaria in un’ottica di generale estensione. L’intento dichiarato è che essa eviti (verbo forte e deciso) agli studenti sia la frammentazione dei saperi che una loro impostazione trasmissiva, favorendo un’articolata organizzazione delle conoscenze, nella prospettiva dell’elaborazione di un sapere sempre meglio integrato e padroneggiato.
L’esperienza ci dice di grandi difficoltà e, parimenti, di grandi successi nella costruzione del curricolo trasversale che, in continuità con la scuola primaria, dovrebbe mutuarne l’impostazione metodologica, basata sull’osmosi disciplinare, consentendo di rendere via via più sistematici (organizzati) gli apprendimenti. In ragione della specificità evolutiva degli alunni che la frequentano (e dei significativi mutamenti sociali e comunicativi che ben conosciamo), la scuola secondaria di primo grado esprime anche una ampia finalità orientativa perché “fornisce occasioni per acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità e risorse, svolgendo un fondamentale ruolo educativo e di orientamento per il successivo percorso di istruzione e formazione”. Le viene affidata una grande impresa, fatta specialmente di relazionalità e di intuito pedagogico. Cose preziosissime. Che dovrebbero anche portarci fuori da una concezione dell’orientamento tutto appiattito sulla capacità di trovare lavoro o di andare a individuare quelle figure professionali che mancano.
Chiariamoci subito, bisogna essere realisti e prospettare le migliori occasioni ai nostri studenti, ma l’orientamento, quello vero, è vocazionale. È una scoperta di sé (dalla quale conseguono certe scelte piuttosto che altre). È sul più, non sul meno. Viaggia sulla visione e sull’orizzonte, non su ciò che può essere più utile. Ma, ancora una volta, non è questione semplice. E non è un caso che l’attenzione sia posta, ragionevolmente, sull’emergenza orientativa, mi si passi l’espressione.
Ho un ricordo indelebile della mia prima esperienza di insegnante di italiano storia e geografia alle medie. Una scuola della periferia napoletana, un cubo di cemento con finestre luminose, brutta, piena di grigio. Una classe come ne ho viste tante negli anni a venire: ragazzi alla ricerca di punti di riferimento e di sé stessi. Ricordo le urla collettive, il chiasso, la prepotenza di quelli che si atteggiavano a grandi. Un muro di distanza tra chi doveva insegnare e le loro vite. Quell’aula cui eravamo destinati, come tutte le altre, era respingente in sé.
La mia prima domanda fu: perché dovremmo passare del tempo tra queste mura sporche? Eppure, quei ragazzi erano lì, alcuni ancora piccoli e timidi, altri già grandi con una lunga carriera alle spalle, pluridecorati di bocciature. Feci breccia nel loro cuore perché decisi che dovevamo (studenti e prof insieme) ridipingere di azzurro le pareti di quella prigione di anime, mentre leggevamo I promessi sposi.
Insegnare è un mestiere rischioso, fatto di intuizione e di sfide. La prima fu accogliere il chiasso con tranquillità. Più facevano chiasso e più li guardavo in silenzio, senza abbassare lo sguardo. Arrivava sempre il momento in cui si stancavano della provocazione. Avevo intuito che se solo avessi loro imposto il silenzio per cominciare la lezione, li avrei persi per sempre. Quelli più pacati mi guardavano con gli occhi spalancati, sorpresi oltre misura che non mi imponessi con la forza. Una delle prove più ardue della mia vita da docente: recitare la parte della professoressa o essere la loro prof. Se sono più me stessa, ancora innamorata della scuola, nei diversi vestiti professionali che ho indossato, lo devo a quei ragazzi. E a chi ho avuto per maestro. Ai colleghi delle discipline trasversali che mi furono compagni in quell’avventura. Alcuni studenti non sapevano neppure leggere correntemente l’italiano, cominciai con il leggere io “con espressione” (come dicevano loro) e a mimare i Bravi che incrociano don Abbondio lungo la via. A farli mettere carponi come scimpanzé per spiegare l’evoluzione dell’uomo che iniziò a capire il mondo alzando lo sguardo verso il cielo. Dentro un rapporto umano passava il lavoro collettivo e individuale che occorreva fare.
Con negli occhi questa esperienza (se ne potrebbero raccontare infinite altre, tutte con un lieto fine) torno al sito del ministero per riprendere altri punti cardine su cui è incentrata la scuola media: essa “potenzia l’alfabetizzazione di base attraverso i linguaggi e i saperi specifici delle discipline, intese come punti di vista sulla realtà e come modalità di conoscenza, interpretazione e rappresentazione del mondo”; attraverso le competenze disciplinari “promuove lo sviluppo di competenze più ampie e trasversali, che consentono la piena realizzazione personale degli studenti e la loro partecipazione attiva ad una vita sociale orientata ai valori della convivenza civile e del bene comune; stimola la crescita delle capacità autonome di studio e di interazione sociale, facendo assumere agli studenti un ruolo attivo nel proprio apprendimento e incoraggiandoli alla costruzione di un proprio progetto di vita”.
Insomma, la centralità della scuola per lo sviluppo di un Paese democratico sta alla centralità della scuola “di mezzo” nel nostro sistema scolastico. La domanda sorge spontanea: è ancora una modifica ordinamentale quella che ci attendiamo o desideriamo, davvero, un cambio di prospettiva? Con tutto ciò che ne consegue.
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