Il treno delle riforme costituzionali e istituzionali è di nuovo in partenza. Dopo i primi mesi di rodaggio il Governo prova ad accelerare e il tema torna ad occupare le pagine dei giornali. Si mettono su due percorsi paralleli il cambiamento della forma di governo e quello della forma di Stato, che in questo momento coincide con l’attuazione della cosiddetta autonomia, cioè l’autonomia differenziata prevista dall’art. 116, comma 3 della Costituzione.
In verità, i percorsi sono paralleli solo perché rispondono alle istanze dei due principali partiti della coalizione e perché sono uno il contraltare dell’altro sul piano politico, mentre si tratta, sul piano tecnico, da un lato di modificare la Costituzione mediante l’art. 138 della Costituzione (percorso lungo e farraginoso che si è concluso anche di recente con il nulla di fatto del progetto Boschi-Renzi) e – dall’altra – di darle attuazione, visto che l’autonomia è costituzionalmente prevista.
Vi è un bel daffare in dottrina a sostenere che l’attuazione dell’art. 116 può rivoltarsi contro i suoi promotori e diventare un’attuazione “incostituzionale”: tutto si può dire se si vuol far dire ad un testo costituzionale quello che vorremmo dicesse. Invece, se si sta alla lettera della Costituzione, nulla è più costituzionalmente legittimo (e anzi persino doveroso) che ottemperare alla Costituzione stessa.
Ma, tralasciando i dettagli per addetti ai lavori, va preso atto che il sistema politico si sta accordando perché ciascuna parte persegua i propri scopi, compresi quelli di dare attuazione alle promesse elettorali. Per far questo, è partita una chiamata alle armi a tutte le componenti del Parlamento perché ci si stringa a coorte e si cominci a trattare. Trattativa non facile, come sembra di comprendere dalle dichiarazioni odierne dei leader, ma perseguita con metodo: se non si collabora “si andrà da soli”, dice il ministro Calderoli.
Sempre sul piano del “non parallelismo” è evidente che la via più lunga è quella del presidenzialismo (o semipresidenzialismo o premierato). Le alternative sono abbastanza ampie e diversificate e occorrerà capire in che direzione andrà la proposta governativa, che dovrà essere anch’essa ampia, visto che per cambiare un sistema non si potranno fare modifiche di nicchia. Gran parte della parte seconda della Costituzione sarà coinvolta, con tutte le difficoltà del caso; non a caso si evocano le vecchie e buone “Commissioni bicamerali” le quali, giova ricordarlo, non hanno prodotto nulla, né sulla riforma del Governo né rispetto al Parlamento, oggi come nel 1948, “perfetto” nel suo bicameralismo eguale.
Diverso è lo stato di avanzamento del progetto di regionalismo differenziato. In questo campo vi è un disegno di legge che potrebbe già da subito essere presentato in Parlamento (disegno di legge che, nonostante tutte le proteste degli oppositori, è pressoché identico a quello presentato nella scorsa legislatura dal ministro Boccia). Ci sono poi le proposte delle Regioni capofila, su cui gli apparati tecnici di Stato e regioni si erano già esercitati a condurre la trattativa e ci sono – per non farsi mancare nulla – anche le pre-intese firmate sotto il Governo Gentiloni (ministro Bressa) dai presidenti di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Anche qui però le cose sono e restano complesse, visto che prima di qualunque cosa andranno definiti i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali”, operazione ad alta complessità, che necessiterà almeno di qualche mese di lavoro da parte del Comitato per i Lep (oggi al via).
Si lavora dunque di sciabola e di fioretto, tra dichiarazioni e controdichiarazioni, sperando che cammin facendo i nodi si sciolgano mentre il Paese attende una modernizzazione che non può essere solo frutto del Pnrr. La posta in gioco è ben più alta. Speriamo che tutti siano in grado di rendersene conto e di attivare processi di convergenza senza troppa preoccupazione per i sondaggi.
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