Oggi viviamo tutti in un contesto che potremmo definire come civiltà della tecnica, intendendo qui non tanto una civiltà in cui regnano le tecniche, quanto quella in cui predomina la logica della macchina e del procedimento tecnico-scientifico. In questo senso la parola tecnica può essere sostituita dalla parola tecnologia. Nel corso dell’epoca moderna, essa ha progressivamente permeato tutti gli ambiti dell’esperienza umana grazie alle sue straordinarie capacità di conservazione, miglioramento e potenziamento della vita, nel tentativo di “concorrere – come diceva uno dei suo padri, Bacone – alla redenzione del genere umano”.
L’onnipotenza della tecnica, tuttavia, ha via via smarrito l’uomo nel dominio degli oggetti, aprendo una sfida antropologica che appare globale e che la rivista LineaTempo nel suo ultimo numero, appena pubblicato, ha voluto raccogliere, chiamando a riflettere filosofi e personalità di spicco del mondo della cultura religiosa e laica che da anni si interrogano sulle potenzialità e sui limiti del progresso tecnico e scientifico.
L’essenza della macchina, anche nelle creazioni dell’intelligenza artificiale, è quella di essere programmata; essa è priva, infatti, di slancio autonomo e indipendente verso l’esterno. C’è pertanto un discrimine inaggirabile tra l’umano e l’artificiale, come sottolinea Yuri Berio Rapetti, dal momento che l’uomo, essendo di natura spirituale, è collocato su un piano ontologico infinitamente superiore.
La macchina è (o meglio dovrebbe essere) sempre al servizio della vita. Nonostante questo, assistiamo nel nostro tempo a un paradosso, ossia alla tentazione dell’uomo di autosuperarsi nel proprio prodotto o se si vuole del suicidio dell’umano nella macchina. “Noi siamo resi ‘potenti’ dalla tecnica – avverte Costantino Esposito – ma al tempo stesso, proprio grazie a essa, potremmo anche diventare superflui”.
Il proliferare degli studi del settore dell’intelligenza artificiale arriva a prospettare un’applicazione di essa a 360 gradi e una netta superiorità rispetto all’efficienza e alla produttività del lavoratore. La tecnologia, soprattutto quella del digitale, configura nuovi modi di pensare individuali e collettivi ponendoci di fronte al rischio di una doppia schiavitù, dalla macchina e da chi la governa. Davanti al rischio di questa doppia alienazione, la persona umana, osserva Luciano Violante, si salva se sapremo mettere in campo una pedagogia civile adeguata ai tempi.
La riflessione filosofica già da diversi anni si interroga se l’uomo non sia ormai un essere antiquato e di conseguenza se il destino della nostra civiltà non sia il postumanesimo. La perdita della dimensione metafisica e l’individualismo che caratterizzano l’epoca post-moderna hanno infatti via via consentito al paradigma “fisicalista” di imporsi, cercando di ridurre l’essere umano a reazione chimico-fisica e facendo cadere nell’oblio quel valore ontologico dell’uomo che è il tesoro tramandatoci dalla tradizione occidentale. I soli linguaggi “reali” sono ormai quello neurofisiologico e biologico, esponendo l’uomo a un crescente controllo operato dal potere economico e tecnico, le due fondamentali forme di dominio globale del nostro tempo, come scrive Vittorio Possenti.
L’intero dossier di LineaTempo è dedicato ad analizzare questa crisi antropologica, nel tentativo di rilanciare una proposta culturale realmente umanistica e uscire dall’impasse in cui si trova l’uomo contemporaneo, incapace di interpretarsi al di fuori dell’analogia con la macchina imposta dalla mentalità tecnica imperante, che anzi appare giunta sulla soglia di accarezzare una nuova utopia.
Dopo la caduta delle ideologie, infatti, si fa strada una nuova religione, di tipo tecnocratico, scrive Antonio Allegra, che immagina nuove possibilità per l’uomo grazie all’integrazione con la macchina, fino a pensare di poter trasferire la mente umana su un hardware esterno secondo il modello del transumanesimo.
Il nodo culturale è racchiuso nella domanda: da dove ripartire? L’esperienza, oggi come ieri, rappresenta il punto di ripresa della persona, come sottolinea don Julián Carrón. La catastrofe pandemica ha aperto domande e ferite a cui la tecnica, nonostante il grande contributo offerto, non riesce pienamente a rispondere.
Anche nella scuola durante la pandemia le nuove tecnologie hanno certo rappresentato, come dice Gino Roncaglia, la possibilità di mantenere vivo un dialogo educativo che altrimenti si sarebbe semplicemente interrotto. E tuttavia, la mancanza di interesse e di motivazione che la pandemia ha lasciato nei più giovani chiede risposte che nessuna tecnica può soddisfare fino in fondo.
Davanti a questa sfida, il compito che si apre nel nostro tempo, e che coinvolge innanzitutto chi ha responsabilità educative, è quello di restituire l’uomo al rapporto con la realtà intera, intercettando tutta l’urgenza di significato propria del cuore umano. È inutile cercare la soddisfazione delle eterne aspirazioni dell’uomo al di là e contro l’umano; nell’orizzonte di un nuovo umanesimo c’è la strada per riguadagnare con più consapevolezza l’impegno a realizzare il proprio essere persona.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.