Quando, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si aprì il processo di Norimberga, la gran parte del mondo che fino a quel momento era rimasta ignara scoprì l’orrore degli abomini commessi dai nazisti nei campi della morte. I sopravvissuti sfilavano davanti ai giudici e di lì a poco cominciarono anche a essere pubblicate le testimonianze di quanti avevano attraversato l’abisso (e basti qui ricordare il nome di Primo Levi) e provavano a restituirne l’esperienza.
Oggi il numero dei volumi pubblicati è ampio fino al punto di aver generato la classificazione, decisamente inquietante e sinistra, di un filone chiamato “letteratura concentrazionaria”, ma nel corso del tempo la Shoah è stata studiata anche da storici, sociologi, filosofi, teologi e finanche psicoanalisti e storici dell’arte, perché non c’è ambito dell’umano che non sia stato coinvolto in quanto accaduto. Al novero degli studi si aggiunge adesso un importante studio di Rodolphe Gasché, filosofo allievo di Jacob Taubes e grande studioso di Jacques Derrida, che insegna alla Buffalo University, dal titolo Storytelling. La distruzione dell’inalienabile nell’epoca dell’Olocausto (Mimesis, 2023), in cui, per la prima volta, viene messo a tema il problema del “mutismo” di quanti sono sopravvissuti ai campi di sterminio.
Gasché distingue sapientemente “silenzio” e “mutismo”. Mentre il primo presuppone la possibilità di parlare e può essere addirittura considerato come il presupposto, la condizione da cui può nascere il linguaggio, il “mutismo” implica sempre l’impossibilità di parlare e non può essere considerato la condizione di alcunché. Si tratterà, allora, di chiedersi che cosa ha comportato la violenza che ha ridotto al mutismo quanti sono tornati dai campi, soprattutto tenendo conto che raccontare, narrare, descrivere (tutti significati raccolti nel termine storytelling entrato anche nella lingua italiana) sono stati considerati da buona parte della filosofia del nostro tempo come uno dei caratteri, e forse addirittura il carattere distintivo della natura umana.
Se, dunque, l’identità dell’uomo è anche (o soprattutto) una “identità narrativa”, secondo la felice definizione del filosofo Paul Ricoeur, che ne è di quanti, in ragione del mutismo a cui sono stati ridotti, non sono più in-tramati in quella rete di storie che è la condizione non solo dell’umano ma della società e della storia? Gasché decide di dedicare la sua attenzione a tre filosofi che, nel corso del XX secolo, hanno sottolineato in varo modo la costitutiva “narratività” dell’uomo. Wilhelm Schapp, allievo di Husserl a Gottinga e autore (poco noto al di fuori della cerchia dei fenomenologi) di una vasta opera dedicata proprio all’idea che il mondo e la storia esistono solo a partire dalle storie in cui il singolo è intramato, viene interrogato proprio a partire dalla specola rappresentata dal “mutismo” degli scampati e dal fatto, ormai noto, che il progetto nazista mirava non soltanto all’eliminazione fisica degli ebrei, ma anche alla cancellazione di ogni traccia che poteva in qualche modo richiamarne la memoria.
Walter Benjamin e, in particolare, il suo studio dedicato allo scrittore Leskov, rappresenta il secondo pannello del volume di Gasché: la complessa e raffinata analisi di Benjamin sulla natura verbale dei racconti come traccia della Parola divina viene, di nuovo, interrogata alla luce della violenza alla base del mutismo in cui è la stessa condizione creaturale dell’uomo ad essere negata e, per questo, la stessa possibilità di una redenzione.
Hannah Arendt è, invece, la terza voce filosofica convocata, anche se occorre dire che i tre capitoli dedicati a Schapp, Benjamin e Arendt sono preceduti da Preliminari. Sul non raccontare storie e seguiti da Postliminari. Sorytelling e perdita del mondo che procedono a una vertiginosa discussione delle spesso non discusse implicazioni di qualunque teoria narrativa.
Anche in La condizione umana, uno dei testi più importanti della filosofa, viene in più luoghi ribadita (magari attraverso esempi tratti dal mondo greco) l’importanza della narrazione come fondamento dello spazio pubblico, e anche in questo caso Gasché pone al testo domande tanto urgenti quanto ineludibili relativamente alla condizione dei “muti” tornati dalla prigionia, la cui condizione rappresenta la più radicale contestazione della costitutiva “narratività” dell’umano e della storia. Il dovere di comprendere e di continuare a interrogare quanto accaduto non può, allora, mettere in ombra il fatto che Auschwitz “ha messo radicalmente in discussione l’umanità. Ciò che resta di Auschwitz è la vergogna universale per la fragilità del significato e per l’incapacità del senso di resistere alla propria distruzione”.
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Promossa dall’associazione Prologos, giovedì 18 maggio, alle 17.30 si svolgerà la presentazione del volume di Rodolphe Gasché. Interverranno Sante Maletta, docente di filosofia politica presso l’Università di Bergamo e Silvano Facioni (curatore del volume), docente di filosofie della conoscenza presso l’Università della Calabria. L’incontro avrà luogo tanto in presenza (presso l’Icles in via Settembrini 17, Milano) quanto online sulla piattaforma Zoom (per ricevere ID e passcode si può inviare una mail all’indirizzo: [email protected]).
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