Le ultime assemblee societarie delle principali banche italiane hanno visto quasi tutte l’approvazione di bilanci record. Profitti e dividendi a go go che hanno fatto felici gli azionisti grandi e piccoli e il management che non ha mancato di farsi “monetizzare” questi brillanti risultati. I vari Amministratori delegati, tra cui Andrea Orcel di UniCredit in testa, hanno così chiesto e ottenuto, non senza le riserve e la contrarietà dei maggiori Proxy Advisor, ulteriori maxi compensi alla loro già cospicua retribuzione che corre veloce come il vento sulle ali delle manovre e delle performance sui titoli delle loro società. A questi risultati hanno contribuito anche, in modo non residuale, i c.d. buy back azionari. Cosa sono? Cercheremo di spiegarlo brevemente.
Buy back, secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani – Dizionario di Economia e Finanza, è un’operazione che consiste nel riacquisto di azioni proprie, da parte di una società quotata in Borsa, che aveva precedentemente messo sul mercato. In pratica, aziende che ricomprano se stesse. Quanto questa novità sia diventata importante nelle strategie di business tra i big di Piazza Affari, lo si è potuto osservare nelle nostre maggiori banche che hanno chiesto ai loro soci il voto favorevole per avviare o reiterare importanti piani di riacquisto di azioni proprie. Quattro delle prime cinque banche italiane, tranne Mps per evidenti ragioni, lo hanno fatto.
UniCredit per esempio, ricevuta l’approvazione preventiva della Bce, ha chiesto agli azionisti l’avvio di un programma che prevede un importo complessivo di 3,3 miliardi di euro, dopo che la prima tranche di 2,34 è già stata avviata. L’anno scorso l’investimento era stato di 2,6 miliardi in due tranche (da 1,6 la prima e da 1 la seconda a novembre).
Una volta autorizzato dall’assemblea dei soci, un programma di riacquisto può essere realizzato in due modi: tramite offerta pubblica a prezzo fisso oppure con acquisti sul mercato secondario. Il buy back diviene così una modalità di distribuzione degli utili alternativa al dividendo; al momento del riacquisto la società distribuisce profitti agli azionisti che le cedono azioni. Anche gli altri azionisti beneficiano, in genere, di una rivalutazione delle proprie azioni, che potrebbero venderne una parte per ottenere una plusvalenza.
Il ricorso al buy back da parte delle società aumenta quanSando la tassazione sui dividendi si inasprisce rispetto a quella sulle plusvalenze così come fa crescere solitamente il prezzo delle azioni in circolazione, sia nel breve che nel lungo termine. Sulle azioni riacquistate la banca non paga dividendi e con un minor numero di azioni in circolazione queste tendono ad aumentare il prezzo, cosi come implicitamente cresce il monte dividendi. Una semplice regola di economia e di mercato.
Guardando sempre a UniCredit, a metà maggio il titolo ha toccato quota 20 euro, facendo segnare così in un anno un progresso di più del 100%.
Lo stesso annuncio viene poi quasi sempre interpretato, al pari di un aumento del dividendo, come un segnale di ottimismo sulle prospettive di redditività dell’azienda lanciato al mercato dal management, facendo intendere altresì come la società ritenga il titolo sottovalutato.
Negli ultimi anni, vi è stato un crescente interesse e ricorso a questo tipo di operazioni, realizzate per la quasi totalità sul mercato aperto. Benché non sia obbligatorio portare a termine i riacquisti deliberati, molti si sono realizzati in più anni, concentrati dopo periodi di calo dei prezzi. La crescita dei piani di riacquisto di azioni è avvenuta spesso in parallelo allo sviluppo delle politiche di remunerazioni tramite “stock option”. È infatti più probabile che una società annunci un riacquisto quando si verifica una crescita della quota di stock option esercitabili dai manager sul totale della capitalizzazione. Altro caso e fattispecie il ricorso al buy back da parte di società oggetto di acquisizioni ostili, o che temono di diventarlo, come deterrente rendendo l’operazione più costosa per il rivale.
La regolamentazione dei buy back ha quindi vari scopi. Per evitare manipolazioni, i riacquisti non possono superare una quota delle azioni in circolazione e il prezzo non può essere superiore alla media di quelli recenti. Per tutelare gli altri stakeholder si possono effettuare riacquisti solo con utili netti. Per evitare casi di insider trading societario vi sono poi altre regole che l’emittente è tenuto a rispettare, ma questo lo rimandiamo a palati più esigenti e interessati.
Si abbassa la patrimonializzazione, ma cresce la remunerazione del capitale investito, il gradimento e il portafoglio dei soci. Tutto bene allora? Alla fine di questo breve excursus sorge legittimo un pensiero e una domanda.
Ancora ferme al momento le fusioni e le acquisizioni, e quindi la crescita per linee esterne, il nostro sistema bancario italiano si presenta più solido rispetto al passato, i coefficienti di patrimonializzazione richiesti sono superati dai nostri maggiori istituti e le politiche di remunerazione degli azionisti sono oggetto di continua attenzione e ulteriore sviluppo. È questo il ruolo, il contributo, il sostegno alla ripresa, allo sviluppo dell’economia e del Paese delle banche? Cosa c’entra tutto questo con il business bancario, la crescita delle attività, la solidità patrimoniale che deve essere comunque mantenuta per far fronte alle necessità del Paese, e operare in un contesto che vede tra le vere priorità la gestione del Pnrr, il sostegno dell’economia in uno scenario segnato da un’alta inflazione, il rialzo dei tassi e delle materie prime, la situazione geopolitica con la guerra in Ucraina? È questo il valore aggiunto delle banche e dei pluridecorati e ricchissimi managers? Fare felici gli azionisti e i loro portafogli?
Al sistema bancario e finanziario è chiesto altro. Di più, molto di più. Siamo ancora molto lontani da un sistema finanziario diverso, meno speculativo, più responsabile ed etico, più aperto e trasparente al servizio della collettività e delle imprese.
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