Erdogan al 49,5%, Kilicdaroglu al 44%. Si parte da qui per affrontare il ballottaggio che domenica in Turchia deciderà chi sarà il nuovo presidente. L’appoggio a Erdogan di Sinan Ogan, che al primo turno delle elezioni aveva ottenuto il 5%, sembra rendere più probabile la vittoria del presidente uscente, anche se il suo oppositore sta cercando di togliergli voti puntando su temi nazionalisti e sulla necessità di rimpatriare i profughi siriani.
Al di là del risultato del voto, comunque, c’è una società che vive contraddizioni irrisolte, in cui i giovani chiedono il rispetto dei diritti civili e individuali ma di fronte hanno un governo che negli ultimi anni ha conosciuto una deriva autoritaria. “La politica mediorientale è molto strana – osserva Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri -. La partita non si gioca solo alle elezioni, possono innescarsi movimenti di massa, di protesta, che vanno al di là del dato elettorale. Erdogan può vincere ma non è affatto detto che potrà continuare a governare come prima. La vittoria eventuale alle elezioni non risolve il problema politico che resta aperto. Il terremoto ha paradossalmente scosso i vecchi equilibri”.
La campagna elettorale turca per il ballottaggio ha virato su temi più nazionalisti. Kilicdaroglu sta puntando molto sul tema dei migranti, in particolare sulla massiccia presenza di siriani che si vorrebbe rimandare nel loro Paese d’origine. È un tema così sentito in Turchia?
Sì. Ci sono molti profughi, quasi tutti siriani. Per molti anni hanno rappresentato una fonte di guadagno per il Paese e di manodopera a buon mercato, per questo il caso immigrazione, nonostante i numeri fossero già altissimi, non è esploso in Turchia. Il terremoto ha cambiato la situazione: c’è la necessità di assistere milioni di turchi e a questo punto i migranti diventano un problema. È una lotta tra poveri.
Con i migranti la Turchia non ha guadagnato soprattutto grazie all’Europa?
Sì, basta pensare ai miliardi di euro che con la spinta della cancelliera Merkel, la Turchia ha ricevuto dalla Ue per trattenere sul suo territorio profughi afgani, iracheni e siriani. Però non si può negare che a livello popolare i siriani rappresentino una manodopera disponibile e a buon mercato.
Ma se ora vogliono cacciare i siriani vuol dire che i turchi cambieranno anche i rapporti con la Ue sui migranti?
Credo di no, perché quei soldi fanno comodo. Bisogna vedere fino a dove si vuole spingere Kilicdaroglu in relazione alle restrizioni nei confronti dei siriani. Certo, se una parte dei diritti individuali dei residenti in Turchia viene messa in discussione poi è difficile accusare Erdogan sul piano dei diritti umani.
Far tornare i siriani nel loro Paese, però, non sarà un’operazione facile: quali sono gli ostacoli principali da superare?
La guerra civile in Siria è scesa di intensità, ma questo è un processo che riguarda milioni di persone che con il Governo Assad hanno avuto problemi drammatici. Ci sono centinaia di migliaia di famiglie che hanno perso parenti non nella guerra civile, ma nelle carceri di Assad. C’è anche un timore personale. Si dice che gli arabi abbiano una memora di elefante: chi è andato via dalla Siria non ha dimenticato quello che ha dovuto subire dai miliziani di Assad. È un problema di dignità delle persone nei confronti della politica.
Scegliendo di puntare su temi nazionalisti e su quello dei migranti Kilicdaroglu non rischia di avvicinarsi troppo a Erdogan e di non differenziarsi a sufficienza da lui?
Sì. Erdogan rimane nello scenario mediorientale una persona che ha reso La Turchia protagonista. Il retaggio di Ataturk, della rivolta laica al potere in Turchia, aveva creato le premesse per un rapporto politico ed economico particolare tra la Turchia e Israele. Gli israeliani e i palestinesi di passaporto israeliano hanno scelto per decenni la Turchia come luogo di vacanza. Quando Erdogan ha cercato di forzare il blocco navale a Gaza la sua popolarità nel Medio oriente è enormemente cresciuta, pagando un prezzo con Israele. Poi in Libia ha sostenuto il governo di Tripoli in contrapposizione con quello di Tobruk, sostenuto dagli egiziani. Tutto questo non lo si può dimenticare anche se i temi interni, vale a dire la ricostruzione dopo il terremoto e i profughi che diventano concorrenti con altri poveri che vivono in Turchia, giocano un ruolo forse primario rispetto al prestigio internazionale di Erdogan.
Alcune scelte di Erdogan, tuttavia, hanno fatto perdere credibilità al presidente turco a livello internazionale.
Il suo prestigio internazionale si è appannato a causa di questa svolta autoritaria interna, di limitazione della libertà di espressione, che ha colpito testate giornalistiche e direttamente giornalisti e scrittori, ponendo la Turchia di fronte a una critica diffusa in Europa, la quale, comunque, non è esente dall’avere responsabilità.
Quali?
L’Europa paga il governo turco per trattenere i profughi siriani e impedire loro di arrivare in numero ancora maggiore nel Vecchio continente, ma quando si erano create le condizioni per iniziare il processo di integrazione della Turchia nella Ue si è persa un’occasione storica per resistenze di vario tipo nei confronti dell’ingresso di un Paese a maggioranza musulmana.
Come si può spiegare, comunque, la scelta di Kilicdaroglu di puntare sulla presenza dei profughi e sulla necessità di rimpatriarli?
La sua è una scelta pragmatica, elettorale, per cercare di conquistare quella pancia dell’elettorato di Erdogan che lo ha votato ripetutamente e che, per usare un termine della politica europea, è di centrodestra. Nella convinzione che a sinistra non ci siano i numeri per diventare maggioritari. Fermo restando che la componente giovanile turca ha un ruolo molto importante nella battaglia per i diritti civili, individuali e politici e con questa scelta di Kilicdaroglu potrebbe essere indotta a non andare a votare.
Intanto Ogan, che al primo turno aveva ottenuto il 5%, s’è schierato con Erdogan. Il suo apporto può essere decisivo?
Realisticamente rappresenta una parte di elettorato che al momento del ballottaggio avrebbe confluito naturalmente verso Erdogan. I leader di questa piccola minoranza, aggressiva, di destra, cercano di ricavarne un vantaggio personale e politico. Il vero problema è cosa farà l’elettorato di centro, o di centrodestra, che per decenni ha votato Erdogan. Non credo che la destra estrema possa essere decisiva.
Ma Erdogan conta ancora sul sostegno popolare?
Anche in Turchia è presente un fenomeno che in Israele c’è da anni: un’ostilità diffusa nei confronti del leader storico, che coinvolge un elettorato trasversale. In Israele questa parte di elettorato, contraria a Netanyahu, si è ingrandita negli ultimi mesi, in Turchia è rimasta latente. Il soprannome dato in Occidente a Erdogan, “il sultano”, riflette la critica di una parte dell’elettorato turco che considera il presidente, sia da destra che da sinistra, troppo autoritario.
Guardando ai risultati del primo turno si può dire che l’immagine del Paese che ne esce è quella di una Turchia tradizionale?
È una società complessa, con un bacino elettorale maggioritario, fuori dalle grandi città ma anche nelle periferie dei grandi centri, che sostiene Erdogan. Ma la cultura laica e di rispetto dei diritti civili e politici di tutti, a cominciare dalle donne, non mi pare possa essere considerata residuale.
Questa cultura ha la forza per scalzare Erdogan? Possono farcela in queste elezioni?
Il Medio oriente ha preparato delle brutte sorprese a chi per decenni ha guidato gli Stati: ci sono stati una miriade di presidenti e rais che sono caduti. Non sarei dell’idea che tutto è rinviato a un tempo lontanissimo.
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