Siamo agli ultimi giorni di maggio. Come ben sanno tutti quelli che bazzicano il mondo della scuola, è un periodo facilmente descrivibile come angoscioso o, se preferite, nevrotico. Disperata ricerca di voti da mettere per far quadrare medie e bilanci (per non parlare dei voti di educazione civica, continuamente procrastinati e, ora che si presenta il conto alla rovescia dei giorni che mancano al termine dell’anno, si cerca di rimpallarsi vicendevolmente l’onere di doverli attribuire) oltre che disperata ricerca di ore per finire il programma, specialmente in quinta. Tanto più che ora è tornata la commissione mista e l’idea di fare brutta figura con i colleghi esterni si diffonde contagiosa, più della peste nera nel Trecento.
“Con la quinta XY sono indietro col programma e non ho fatto in tempo a fare Calvino e ho realizzato che quest’anno è il centenario della sua nascita, accidenti! Non è che mi potresti prestare un’ora, tanto tu il programma l’hai finito. Ah, no! Potrei provare a trovarmi su Meet coi ragazzi un pomeriggio”. Subitanee e surreali epifanie a parte, qualcuno di voi avrà già notato il particolare che non quadra: la parola “programma”. Eh, già, perché il programma non esiste più. Forse.
Peccato che nessuno di noi insegnanti se ne sia accorto. Al di là del fatto che l’autonomia didattica del singolo insegnante dovrebbe regnare sovrana, negli ultimi anni si è spinto moltissimo sull’insegnamento delle competenze, sulle esperienze, sui laboratori, spesso aggiungendo che i contenuti, quelli che si scrivono nei programmi, appunto, sono roba vecchia.
Come sempre, la ricerca dell’aurea mediocritas, il giusto mezzo tra il non riempire le teste degli studenti di nozioni che regolarmente dimenticano un minuto dopo l’interrogazione e il lasciar perdere Dante, Manzoni e compagnia cantante per far fare ai nostri studenti laboratori di scrittura creativa (magari usando incidentalmente gli stessi Dante e Manzoni, ma senza spiegarli, perché no, figuriamoci) è molto difficile. Tanto più che lo stesso Miur (adesso è il Mim) tende un po’ alla schizofrenia, chiedendo agli insegnanti, senza del resto spiegar mai bene come, la proverbiale botte piena e moglie ubriaca, specie alla maturità. Spinte da una sorta di competizione reciproca, le scuole stesse cercano disperatamente e bulimicamente di riempire di attività extra i ragazzi. E così spuntano laboratori di ogni forma, colore e dimensione.
No, non fraintendiamoci: non è che non siano attività belle e interessanti. Io stesso ne ho proposte alcune, per cui sarebbe ipocrita da parte mia negarlo. Il problema è che costringiamo i nostri studenti (perché sì, li costringiamo, in fondo) a perdersi in una giungla di attività di cui, onestamente, faticano a trovare un filo rosso. Non vedono alcuna coerenza nelle mille cose che proponiamo loro: solo una grande, enorme discarica a cielo aperto delle buone intenzioni dei loro professori, a cui, spesso più stancamente che altro, si adeguano. Agli open day ci piace riempire i genitori di informazioni su mille e più corsi pomeridiani e loro, le madri e i padri degli ignari pargoli, ci ascoltano ammirati, per poi tornare a casa stupefatti e recitare la fatidica frase “Ma quante belle cose si fanno in quella scuola!”.
Be’, diciamo la verità, ossia che non diciamo tutta la verità. Loro, i ragazzi, si troveranno di fronte, a maggio, l’alternativa tra il bellissimo club di chissaché il lunedì pomeriggio e l’interrogazione il martedì mattina su Lucano, Seneca e Silio Italico. Poi, magari, l’insegnante che ha messo in piedi il club di chissaché, metterà, impermalosito, l’interrogazione di filosofia proprio il giorno dopo al corso pomeridiano creato dal prof di latino. E così via, in un eterno saliscendi dei cavalli della giostra, che sembra vadano lontano, ma che in realtà, non fanno altro che girare, girare, girare. Un eterno girotondo sempre intorno allo stesso angusto perimetro.
Quindi, che fare? Fingendomi più umile di Lenin, non ardisco scrivere libri che diano risposte a un tale annoso quesito. Mi limito a dire che forse, dico forse, occorrerebbe ricordarci che a dispetto della fuorviantissima locuzione “offerta formativa”, una scuola non è un supermercato, che più marche sfilano in bella mostra sugli scaffali, più pare migliore ai clienti. Una scuola è un luogo in cui si prova a trasmettere un fascino e una curiosità sempre maggiore per la realtà che ci circonda. E, certo, si può fare sia con Dante, sia con il club del libro. Ma quanto sarebbe più bello se fosse il club del libro insieme a Dante e non contro?
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