Le stime della crescita del Pil italiano continuano a essere riviste verso l’alto da parte delle Autorità politiche e monetarie nonostante alcuni indicatori, in particolare la decrescita della popolazione, il sottoutilizzo delle risorse pubbliche destinate agli investimenti, e la riduzione del potere di acquisto dei redditi fissi per via della crescita dei prezzi finali, facciano propendere nella direzione opposta. Gli stessi commentatori economici, con qualche lodevole eccezione, faticano a offrire una spiegazione convincente. Assuefatti alla consuetudine di rivedere al ribasso le previsioni della crescita economica italiana nel corso degli anni 2000 e a descrivere la sgradevole condizione di fanalino di coda del nostro Paese nel novero di quelli dell’eurozona.
La lodevole eccezione è rappresentata dagli studi della Fondazione Edison guidata dal prof. Marco Fortis, che da tempi non sospetti, compresi gli anni precedenti la pandemia, offrono una spiegazione convincente della capacità di resilienza del sistema produttivo italiano. Motivata dalla straordinaria vitalità delle filiere produttive interne, rappresentate dalle reti delle grandi e medie imprese e dei loro fornitori, che esportano una gamma notevolissima di prodotti e di componenti di eccellenza a livello globale. Un complesso di imprese, prevalentemente manifatturiere e agroalimentari, che ha registrato un significativo incremento della competitività nella seconda decade degli anni 2000, grazie all’impulso degli incentivi del programma Industria 4.0 varato dal Governo Renzi nel 2015 e che sono stati utilizzati in modo massiccio per modernizzare gli impianti e per formare il personale per l’utilizzo delle tecnologie digitali.
I risultati in termini di contributo alla generazione di nuovo valore aggiunto e di saldo commerciale negli scambi internazionali sono stati impressionanti. Così pure la ripresa dell’occupazione nei comparti manifatturieri per quantità di posti di lavoro, circa 200 mila, e di qualità dei rapporti di lavoro, per la gran parte qualificati e a tempo indeterminato. Un fattore di crescita che ha consentito un ritorno più rapido sui livelli precedenti alla pandemia e che è risultato superiore alla media registrata tra quelli aderenti al G20. A completare l’opera sono subentrati due fattori: il rapido incremento degli investimenti nell’edilizia residenziale, stimolato dagli effetti del superbonus, e l’utilizzo del risparmio familiare per sostenere la ripresa dei consumi interni, alimentato nel corso della pandemia dalla generosa elargizione dei sostegni dello Stato alle imprese e ai redditi alle famiglie. La crescita del Pil nazionale rispetto al 2019 e’ stata del 2,2%. Di gran lunga superiore a quella registrata dalla Francia (1,8%), dalla Germania (0,8%), dalla Spagna (0,6%).
L’aumento del Pil pro capite (+3,6%) risulta ancora più elevato per l’effetto della riduzione della popolazione residente (-1,3%), compresa quella in età di lavoro, a fronte di un andamento stagnante o addirittura negativo nella maggioranza dei Paesi sviluppati. Un indicatore che mette in evidenza una crescita della produttività del capitale investito e del lavoro che non si verificava da decenni. Quest’ultima è associata a un aumento del numero degli occupati (+420 mila), tra i quali oltre mezzo milione con rapporti di lavoro a tempo indeterminato, degli orari medi lavorati nel corso dell’anno e alla riduzione delle persone in cerca di lavoro o inattive (-650 mila). I risultati occupazionali hanno compensato in parte la perdita del valore dei redditi dovuta all’inflazione.
Queste tendenze consentono di fare alcune riflessioni sulle prospettive di medio periodo della nostra economia. A partire dalla constatazione che i numeri descritti sono stati ottenuti in assenza di un contributo significativo delle risorse del Pnrr, in particolare di quelle veicolate verso gli investimenti nelle infrastrutture che dovevano svolgere un ruolo trainante nella ripresa dell’economia. Sono per la gran parte il frutto delle scelte delle imprese e delle famiglie legate anche agli incentivi e ai trasferimenti di risorse operati dallo Stato, parte delle quali, in particolare l’effetto del superbonus per le ristrutturazioni edilizie, sono destinate a esaurire per il rilevante impatto negativo sui conti pubblici. La crescita dei consumi nel corso del 2022 è stata sostenuta dalla riduzione dei risparmi delle famiglie che hanno subito nel contempo una pesante svalutazione dovuta a un andamento dell’inflazione di gran lunga superiore rispetto a quella dei redditi.
Sul fronte occupazionale, la difficoltà delle imprese e della Pubblica amministrazione a trovare risorse umane nel mercato del lavoro coerenti ai fabbisogni della produzione e dell’erogazione di servizi, che si avvicina alla metà dei profili professionali richiesti, risulta compensata dall’aumento dell’utilizzo dei lavoratori già occupati e da un parziale riassorbimento dei bacini delle persone disposte a lavorare. Ma tutti gli indicatori disponibili tendono a evidenziare che su questo versante si sta raschiando il fondo del barile. Per rimediare alle carenze di personale tecnico e specializzato, anche per le professioni esecutive, servono investimenti collettivi e individuali che producono risultati nel medio e lungo periodo. Sull’altro versante, quello delle mansioni meno qualificate, nel sistema delle imprese si registra una scarsa fiducia riguardo la possibilità di trovare lavoratori disponibili nel mercato del lavoro nazionale. Tanto da aumentare in modo esponenziale e largamente superiore al fabbisogno teorico, data la consistenza di persone in età di lavoro non occupate, la richiesta di ingressi nuovi lavoratori extracomunitari.
Da questa lettura scaturiscono alcune conseguenze.
L’esperienza sul campo conferma che la crescita dell’economia dipende essenzialmente dalla vitalità delle imprese e delle famiglie, e che allo stato attuale il contributo offerto dalla gestione diretta delle risorse da parte della Pubblica amministrazione risulta alquanto limitato. La lezione da apprendere, anche per conseguire i migliori risultati in termini di risparmio energetico e di sfruttamento delle tecnologie digitali, rimane quella di utilizzare la leva delle politiche che hanno le potenzialità di sviluppare anche nei comparti dei servizi, ivi compresa la Pubblica amministrazione, le modalità di impiego delle risorse utilizzate nel programma Industria 4.0.
Il sottoutilizzo delle risorse, che può compromettere non solo il tasso di crescita ma anche la sostenibilità del debito pubblico e della spesa sociale, riguarda in particolare l’inadeguata disponibilità di risorse umane competenti, e disponibili, per sostenere l’impatto delle trasformazioni tecnologiche e organizzative attese. Questo può avvenire solo con un coinvolgimento diretto degli attori del sistema produttivo, le imprese e le parti sociali e delle famiglie, finalizzato a orientare le offerte formative verso i fabbisogni. Nella condizione attuale la richiesta di aumentare i sostegni al reddito per motivi redistributivi è sbagliata e controproducente.
Nel complesso servono politiche in grado di allungare l’orizzonte delle scelte di investimento per l’insieme della comunità.
In estrema sintesi, per avere tassi di crescita stabile serve un cambiamento degli approcci culturali che orientano le attuali politiche economiche, per molti aspetti senza grandi differenze tra le diverse forze politiche, a partire dal ritenere che i problemi possano essere risolti da supplementi di intermediazione e di gestione delle risorse da parte dello Stato, per l’obiettivo di intensificare gli investimenti in modo dirigistico, e per redistribuire il reddito senza averlo generato.
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