Il Governo italiano starebbe valutando l’esercizio del “golden power” per limitare l’influenza di Sinochem in Pirelli sospendendo l’efficacia dei patti e dei diritti di voto dell’azionista cinese. Sinochem è il principale azionista di Pirelli con una quota del 37%. Il golden power consegna al Governo poteri speciali per difendere società che operano in settori strategici o di interesse nazionale. In questi stessi giorni le agenzie di stampa hanno dato conto della volontà di Sinochem di proteggere l’italianità di Pirelli considerata un asset imprescindibile. Questa è un’apparente contraddizione della narrazione con cui viene inquadrata la vicenda.
Le relazioni tra l'”Occidente” e la Cina stanno evidentemente peggiorando. Domenica scorsa il Primo ministro britannico Sunak ha dichiarato che la “Cina è la più grande minaccia alla sicurezza e alla prosperità globali”. I segnali di questa frattura sono molti, dall’indipendenza di Taiwan alla vicinanza alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Pirelli non è una società che produce missili o componentistica per i carri armati; produce e vende pneumatici “premium”. L’entrata nell’azionariato di Pirelli di Sinochem non ha coinciso con un ridimensionamento degli uffici centrali italiani o con la chiusura di fabbriche e nemmeno con un ricambio del top management. L’azionariato dei gruppi industriali può essere un problema per il sistema Paese quando si chiudono le fabbriche e si azzerano gli uffici ricerca e di direzione. A questo riguardo abbondano gli esempi in Italia negli ultimi decenni; alcuni dei più dannosi sono arrivati dopo l’acquisizione di gruppi europei.
Un gruppo che ha sede dall’altra parte del mondo ed è abituato a un mercato completamente diverso avrà molti meno incentivi e anche molta meno convenienza a chiudere tutto inglobando la quota di mercato. Diverso è il caso di un gruppo europeo che ha una perfetta duplicazione, a poche centinaia di chilometri di distanza, di tutti gli uffici e di tutte le funzioni di ricerca, le cui fabbriche producono per lo stesso mercato e che approcciano il mercato nello stesso modo. Un’acquisizione, in questo caso, è infinitamente più pericolosa per il “sistema Paese”.
Si aprono due questioni. La prima è se l’Italia abbia qualche autonomia rispetto all’evoluzione del quadro geopolitico e, in caso affermativo, quanta. Gli Stati Uniti continuano a comprare petrolio, gas e altre materie prime dalla Russia; l’India sta producendo il suo miracolo industriale, accogliendo le imprese che “scappano” dalla Cina, con il petrolio e con il gas russi. Da questa parte del muro diversi Stati hanno ottenuto autonomia. La seconda questione è come l’Italia ha intenzione di interpretare il confronto che si sta, palesemente, aprendo con la Cina e non solo in rapporto agli alleati. Supponiamo che Sinochem decida, con un’estrema semplificazione ed evitando di addentrarci nella fattibilità finanziaria di un’operazione di questo tipo, di vendere tutte le sue azioni sul mercato in perdita. Visti i precedenti l’Italia sarebbe persino in grado di esultare per l’arrivo di un “cavaliere bianco” europeo. In questo caso, invece, bisognerebbe occuparsi eccome dell'”italianità” e soprattutto infinitamente di più delle ricadute occupazionali, industriali e della perdita delle competenze.
Tornando alla difesa dell’italianità che Sinochem dichiara di voler perseguire, ci si chiede se per caso non ci sia già un concorrente europeo alla finestra pronto a occupare il posto della società cinese in nome della difesa dell’Europa o dell’Occidente. Ci sono dei limiti, ovviamente, all’autonomia che l’Italia può ottenere all’interno del quadro geopolitico attuale. Si suppone che ci sia, in questo quadro, spazio per perseguire i propri interessi economici e strategici perché più il mondo si complica e più la torta si riduce, più aumentano gli incentivi a mantenere immutata la propria fetta a discapito di quella degli altri.
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