“Rifiutare obbedienza a un Padre, è grave” (Prometeo incatenato, v. 17); così giustifica sé stesso Efesto, il figlio di Zeus, mentre trova il coraggio di forgiare catene divine contro Prometeo, inviso al nuovo signore dell’Olimpo. Per suo volere infatti il titano è orribilmente condannato per l’eternità ad essere incatenato tra le rocce del Caucaso, per aver rubato il fuoco agli dei e averlo donato agli uomini. Sulla scena, tra cielo e terra, si staglia il titano solo, possente, ma terribilmente dolorante. Regge su di sé una gravosa scelta, come dirà più avanti: non aver riconosciuto, come le altre divinità, la paternità e la signoria di Zeus su tutto il cosmo, dopo la sua vittoria contro il padre Kronos. Ancora una volta c’è di mezzo un Padre; annientato da un figlio più crudele di lui.
È suggestiva l’idea che in una civiltà come quella greca del V secolo a.C., la cui architettura sociale è così austera e intrisa di timore reverenziale per il divino, il poeta Eschilo – o chi per lui: è ancora vexata quaestio – insinui attraverso il personaggio di Prometeo una crepa che sfugge alla logica del più forte: la ribellione per amore. Questa la più profonda colpa di Prometeo: “aver amato oltre misura i mortali” (v. 123).
Alle saette roboanti di Zeus, agli altari e alle statue mute dei nuovi signori del Cielo, egli contrappose il dono della speranza, come dice al coro delle Oceanine, sue consolatrici. Udì, per primo, la miseria dei mortali. Si intenerì per loro, trovandoli ancora indifesi e muti come bambini. Insegnò loro l’arte della costruzione, della nautica, dell’astronomia, della medicina, della mantica; i numeri e l’alfabeto. Asservì al giogo il cavallo e mille altri doni come il fuoco, ultimo smacco per Zeus. Ma chi può far questo, se non un Padre?
Egli si è spinto con coraggio oltre misura, oltre il consentito dal Cielo per la sua creatura. Lui se ne è preso cura, Zeus no. Il primo Padre soffre per le sue colpe, il secondo Padre ammonisce e impartisce gli ordini ai mortali e ai suoi stessi figli, gli dei immortali, per preservare il suo potere. E se la logica del più forte continuerà la sua corsa nella storia del mondo, “nascerà”, secondo la profezia di Prometeo, “un figlio più forte del Padre” (v. 768) che sarà in grado di sferzare il predominio di Zeus e il suo regno di paura.
Ma ancora una volta, come una ripresa, ecco in scena Prometeo che duellando a parole con Ermes, riafferma la sua ribellione d’amore, nonostante la minaccia del messaggero degli dei di una tortura peggiore di quella che sta già scontando: avere il fegato dilaniato da un’aquila tutto il giorno. La sua liberazione sarebbe rivelare il nome di colui che sconfiggerà Zeus. Ma questa scelta non è prevista dall’animo coraggioso di Prometeo.
Nella successiva opera del Prometeo liberato, pervenutaci in forma frammentaria, il tragediografo probabilmente avrà sanato questo drammatico aut aut: obbedire a Zeus o rifiutarsi. Sicuramente, però, avrà lasciato nei cuori e nei pensieri degli spettatori ateniesi un altro drammatico aut aut: chi mi è Padre? Chi dona o chi esercita il suo potere? chi apparentemente sembra sconfitto per amore o chi troneggia da vincitore?
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