Molte sono le interpretazioni che si possono dare, e sono state date, ai recenti attacchi ai vertici militari russi da parte di Yevgeny Prigožin, fondatore del Gruppo Wagner. Come noto, si tratta di una milizia privata, ma sostenuta dal governo, in pratica contractors che operano sostanzialmente in nome di Mosca, spesso facendo la parte più sporca del lavoro. Ha perciò stupito la violenza degli attacchi di Prigožin, soprattutto all’interno di un regime pesantemente autoritario come quello russo.
Da qui la ricerca dei reali motivi e delle possibili conseguenze di questi attacchi, potenzialmente gravemente negative per lo stesso Gruppo Wagner. È da notare, però, che Putin non è mai stato direttamente coinvolto nelle critiche, riservate ai soli vertici militari. Quando Prigožin dice che “la gente è stanca di veder tornare i figli a casa dentro una bara”, sembrerebbe condannare la guerra in Ucraina di per sé, ma più probabilmente vuol segnalare ai cittadini russi che, con una diversa condotta della guerra, si sarebbero ottenuti risultati migliori con minori perdite.
Certamente vi è anche la richiesta di un trattamento migliore per la Wagner, tanto più dopo quella che appare essere una vittoria definitiva a Bakhmut, del tutto attribuibile al Gruppo. È poi da tenere in conto la possibile intenzione di Prigožin di impegnarsi direttamente in politica, sfruttando la posizione finora acquisita militarmente.
Particolarmente rilevante diventa perciò un altro passaggio: “Se non decidono di combattere seriamente la guerra, si rischia un fallimento e una rivoluzione in Russia, come quella del 1917”. Per questo, basterebbe forse una “non vittoria” nella guerra in Ucraina, come sarebbe il congelamento del conflitto tipo quanto avvenuto con la guerra in Corea. Uno scenario che parrebbe coincidere con gli obiettivi di Washington e della Nato: al minimo, il logoramento del regime moscovita, al massimo, il suo crollo. Un crollo che porterebbe, come sottolinea Prigožin, a conseguenze disastrose, e non solo per la Russia. Le sue uscite possono anche essere interpretate come un richiamo per le varie fazioni russe all’unità attorno all’attuale “zar” Vladimir Putin, non coinvolto direttamente, come detto, nelle accuse di Prigožin.
Vista la situazione decisamente problematica della Federazione Russa, è utile esaminare cosa succede all’interno del suo principale antagonista, gli Stati Uniti. Qui l’attenzione è focalizzata sulla questione debt ceiling, il limite posto per legge all’indebitamento federale. L’attuale tetto è insufficiente a fronteggiare le spese e il governo ha richiesto il suo innalzamento, incontrando l’opposizione dei repubblicani. Non è la prima volta che ciò accade e anche questa volta verrà evitato in extremis il default con un compromesso tra le parti, già annunciato peraltro da Biden e dal suo interlocutore, Kevin McCarthy, il repubblicano speaker della Camera dei rappresentanti. Come ogni compromesso, l’accordo troverà forti opposizioni in entrambi i partiti, rendendo non semplice l’approvazione del Congresso.
Sarà comunque rilevante vedere cosa ha concesso ciascuno dei due contraenti, ma lo stesso fatto che non si sia riusciti a trovare un accordo se non in extremis e sotto la minaccia del default è di per sé un segno di debolezza del sistema, data la gravità del momento che stiamo attraversando. Sintomo di una crescente polarizzazione nella politica e nella società statunitensi, per esempio nei confronti delle politiche sull’immigrazione, la cancel culture, lo wokeism nelle sue varie accezioni. Un segnale particolarmente negativo è dato dal numero di mass shooting, sparatorie in cui si verificano almeno quattro morti o feriti, escluso chi ha sparato. Secondo il Gun Violence Archive, a tutt’oggi vi sono state più di 200 di queste sparatorie, 647 nel 2022 e 690 nel 2021.
Il prossimo anno vi saranno le elezioni presidenziali e non è da escludere che si ripeta il confronto tra Joe Biden e Donald Trump. Malgrado il suo coinvolgimento, quanto meno indiretto, nell’assalto al Campidoglio nel 2021 (a Prigožin avrà ricordato l’assalto al Palazzo d’Inverno del 1917) e la recente condanna per aggressione sessuale (compiuta nel 1996 e giudicata solo ora), Trump è ancora in grado di raccogliere forte sostegno tra i repubblicani. Secondo una recente indagine di Cnn otterrebbe ancora il favore di più del 50% dei potenziali elettori repubblicani, circa il doppio di DeSantis, il suo principale concorrente.
In campo democratico rimane invece unica la candidatura di Joe Biden, malgrado l’età e alcuni problemi comportamentali. Una scelta comprensibile data la grave attuale situazione, che richiederebbe per la sua sostituzione una candidatura molto forte, finora non apparsa. Un punto di domanda rimane la vicepresidente Kamala Harris, finora decisamente dietro le quinte, ma il cui ruolo potrebbe diventare determinante, vista l’età di Biden, nel caso di vittoria nel 2024.
Il motto nazionale degli Stati Uniti è “E pluribus unum”, ma sembra che la prima affermazione prenda sempre più il sopravvento sulla seconda. In questo senso va il recente intervento di Marjorie Taylor Greene, che ha proposto un “divorzio nazionale” tra gli stati “rossi”, repubblicani, e quelli “blu”, democratici. La proposta della Greene è stata subito fortemente contrastata da numerosi suoi colleghi parlamentari repubblicani, ma, almeno finora e non pubblicamente, dallo Speaker McCarthy. Inevitabili i richiami alla ottocentesca Guerra di Secessione, che ovviamente la Greene afferma di non volere. Un parallelo con la Rivoluzione di Ottobre evocata da Prigožin?
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