Quando ci si chiede perché dopo l’invasione Ucraina non si riescano ad avviare serie iniziative di pace bisognerebbe anche considerare gli interessi di chi, grazie al conflitto, sta facendo grandi profitti e quindi non ha assolutamente intenzione di favorire processi di accordo. Mentre Zelensky insiste a ribadire che “La guerra finirà solo con la vittoria dell’Ucraina e soltanto su queste basi si potrà parlare di trattative di pace”, l’imponenza degli aiuti militari a Kiev e la continuità del periodo bellico, che ormai si protrae da oltre 15 mesi, ha infatti aperto la questione delle forniture, dei rimpiazzi e dell’integrazione del materiale bellico da mettere a disposizione dell’Ucraina.
Una “torta” che vale miliardi di dollari e su cui hanno da tempo messo gli occhi tutte le aziende del settore armamenti sia in Europa che negli Stati Uniti, con il crescere di una “concorrenza” all’interno della Nato che ha evidenti risvolti politici ma anche economici, vista l’importanza che l’industria della difesa ha e in prospettiva può avere per i diversi Paesi componenti dell’Alleanza Atlantica.
Fornire un’arma o un sistema “difensivo” significa anche dover poi predisporre le relative munizioni e parti di ricambio, che evidentemente non possono poi essere agevolmente fornite da terzi, e quindi una scelta d’arma diventa anche o soprattutto una scelta strategica. La lunghezza imprevista del conflitto, dopo aver in un primo tempo più o meno ripulito i magazzini, ha infatti progressivamente aperto il problema del rinnovo delle forniture, con relativi investimenti e contratti preventivi che ne giustifichino il costo.
Per questo l’Unione Europea paga e propone armi e piani per armare Kiev, nella prospettiva di rendere l’industria delle armi europea sempre più efficiente e in grado di rispondere alle nuove esigenze manifestate con lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina. La stessa manovra è in atto però anche da parte del formidabile apparato dell’industria bellica Usa (con la sua lobby delle armi capace di condizionare non solo l’opinione pubblica, ma perfino anche l’elezione dei presidenti) e su questo tema controverso per essere il “primo fornitore” si è quindi aperto un dibattito anche in ambito Nato.
Dibattito (meglio sarebbe scrivere “guerra aperta”) anche tra gli stessi Paesi europei appartenenti alla Nato, siano essi componenti o meno dell’Ue, ricordando che le due composizioni non sono identiche. Intanto c’è il problema del munizionamento a Kiev, visto che ogni giorno si consumano migliaia (o forse milioni) di proiettili. La Francia, per esempio, vede la possibilità di garantirsi una buona parte del miliardo di euro necessario per fare arrivare subito le munizioni all’esercito ucraino ed è in prima fila per la scelta “europea”. Ma nella Nato, oltre alla Norvegia e alla Gran Bretagna che non fanno parte della Ue, ci stanno soprattutto gli Usa che intendono mantenere la loro “quota di mercato”, visto che, a parte le forniture immediate, è in discussione la capacità di acquisti congiunti da parte di Bruxelles e il rafforzamento della capacità industriale europea nell’ambito della difesa.
Una produzione di armi in Europa che prima della crisi ucraina era tecnologicamente avanzata ma quantitativamente ridotta, tanto che Washington sostiene che solo le forniture Usa possono permettere rapidità nei tempi di consegna e che le richieste Ue sono “protezionistiche”. La partita però non è solo quantitativa o qualitativa, ovvero su quante e quali munizioni inviare a Kiev, ma anche di matrice geopolitica per gli effetti economici positivi sui singoli Paesi, se l’industria bellica “tira”; e questa è una realtà che va diffusa al minimo a livello di opinione pubblica, ma è sempre stata una sconcertante realtà: tutto fa Pil.
Per questo, Oltreoceano, si guarda con sospetto al programma europeo che escluderebbe o ridurrebbe la quota americana da un piatto di diversi miliardi di euro. È chiaro che per chi produce armi la pace è vista come l’ipotesi più negativa, da lasciare magari in pasto proprio all’opinione pubblica, ma solo per “salvare la faccia” e intanto continuare a produrre o meglio aumentare la produzione. In questo sta la demonizzazione del personaggio Putin, oltre le sue gravissime responsabilità politiche, ma certamente non è una strada da spingere a fondo isolando chi, come Papa Francesco, invano chiede almeno un cessate il fuoco.
In questo quadro di opposti interessi l’informazione e la contro-informazione, le fake news e i depistaggi sono all’ordine del giorno e d’altronde basta ascoltare il bollettino di guerra quotidiano per capire come sia difficile cogliere segnali veri sull’andamento delle operazioni sul campo.
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