Nonostante il parere negativo di alcuni membri dell’OPEC+, l’Arabia Saudita ha appena comunicato un taglio ulteriore della produzione di petrolio da 1 milione di barili al giorno. Il problema? Lo mostra questo grafico: a oggi, gli hedge funds non sono mai stati più pessimisti rispetto al prezzo del petrolio da 12 anni a questa parte.
Già, occorre andare al 2011 per trovare un dedalo di posizioni short simile a quello attuale attraverso una combinazione di vari contratti petroliferi. Tradotto, smart money e altri non-commercial traders prezzano una recessione imminente e drastica con conseguente calo della domanda di energia globale. Tanti saluti al soft landing. E quindi? Quindi, se qualcuno avesse avuto l’ardire di mettere il naso nelle cronache del Qatar Economic Forum tenutosi a Doha due settimane fa, magari l’inviato speciale Luigi Di Maio fra un tweet e l’altro, avrebbe scoperto come il ministro saudita per l’Energia, interpellato al riguardo, avesse già invitato proprio gli hedge funds a stare molto attenti con le loro mosse. Watch out, il termine utilizzato. Tradotto, in campana. Una minaccia più che un monito.
Il motivo? Quel nuovo taglio della produzione potrebbe scatenare una margin call che porti a chiusure immediate e forzate di quella messe di posizioni short. Facendo volare il prezzo del greggio. E cosa accadrebbe alle prospettive inflazionistiche e alle conseguenti scelte monetarie delle Banche centrali occidentali, in vista dell’autunno e della stagflazione? Di sicuro, qualcuno da ieri avrà cominciato a scottarsi le dita con tutte quelle posizioni short. La geopolitica è la nuova chiave del mercato. Quello vero. Quello che non si basa su buybacks, short squeezes e flip-flop monetari delle Banche centrali.
Il 17 maggio, ad esempio, Russia e Iran hanno firmato l’accordo di costruzione per la ferrovia Rasht-Astara, parte integrante del più grande progetto infrastrutturale noto come North-South Transport Corridor o San Pietroburgo-Mumbai, come mostra la cartina.
Nelle intenzioni di Vladimir Putin ed Ebrahim Raisi, la creazione di una rotta alternativa al Canale di Suez per il commercio globale. Un game changer, un figlio legittimo delle sanzioni e dello spostamento a Est dell’asse alternativo a quello formato da Nato e G7. Di fatto, l’infrastruttura che garantirà alla Russia l’accesso ai porti iraniani per l’Oceano Indiano e il Golfo. E il progetto appare decisamente più concreto di quelli contenuti nel Pnrr: lavori cominciati mercoledì scorso e termine di completamento operativo fissato per la prima metà del 2027. Sembra un’eternità. Invece è già domani. Quantomeno se non si vuole essere schiacciati dalla tettonica a placche delle nuove supply chains. E dei nuovi equilibri.
E al netto del cattivo pensiero che sorge malvagio ma spontaneo rispetto alla straordinaria natura di avvertimento che potrebbe star dietro al disastro ferroviario in India, terminale ultimo della nuova rotta, ecco che le notizie che giungono in queste stesse ore da Belgorod sembrano delineare uno scenario tanto estremo quanto lucidamente pericoloso. Si combatte in quella parte di Russia e i cosiddetti partigiani russi hanno comunicato di avere preso dei prigionieri. Il Governatore ha chiesto ai civili di fuggire e da Kiev giunge una frase sibillina: Quello che avviene lì mostra il futuro della Russia. Una seconda disgregazione del gigante post-sovietico? O una devastante balcanizzazione, un patchwork di focolai di guerra a bassa intensità destinati all’unica finalità di far cadere il regime di Putin, rovesciato da un putsch interno o costretto all’addio a furor di popolo e di pressione internazionale?
Se accadesse, i rischi sarebbero enormi. Ma se qualcuno gestisse quella transizione, il mondo il giorno dopo si sveglierebbe bipolare in base a un nuovo assetto: una sfera statunitense e una cinese, di cui la Russia diverrebbe provincia. L’Europa? Morta. Prima fiaccata dalle sanzioni, poi estromessa totalmente dal legame con Mosca. In primis energetico. O, quantomeno, costretta a un continuo pellegrinaggio a Washington in cerca di “autorizzazioni” preventive. E soprattutto all’instaurazione di un nuovo regime di dipendenza dal gas LNG statunitense. E in tal senso, l’assenza della Turchia al vertice pan-europeo appena tenutosi in Moldavia parla chiaro.
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