La fine delle lezioni regala ogni anno illusioni, amarezze e realtà. Le feste di fine anno, i regali che alcune classi fanno ai loro insegnanti, i saggi o le rappresentazioni teatrali, come pure la mostra di gratitudine di genitori e ragazzi, alimentano autoconvinzioni che si esprimono in frasi simili da nord a sud del Paese: “Studenti come da noi – con questa umanità – non ne vedi da molte parti”; “Siamo proprio fortunati”; “Questo dimostra il percorso fatto”; “Non vi dimenticheremo mai”. Chiaramente qualcosa di vero c’è, ma una bella recita o una bella frase, come un bel momento insieme, non è la conferma che una scuola o una realtà educativa sia speciale, bensì che non esiste giovane – per quanto ribelle – che non desideri incontrare uno grande, che non voglia impegnarsi in qualcosa, che non si metta in moto davanti ad una bellezza.
Alimentare la narrazione di scuole, statali o private, meravigliose, con studenti incredibili e un clima da rinascita dell’Europa dopo l’anno mille non serve né alle scuole né ai ragazzi perché associa la parola “bello” alla parola “magico”, la parola “buono” alla parola “riuscito”.
La scuola non è bella perché magica e non è buona perché riesce: la scuola vale perché c’è, perché è piena di incoerenze, di insuccessi, di domande aperte che la rendono un vero luogo di vita. Gli stessi studenti che oggi sono osannati perché testimoni di una diversità, domani potrebbero essere quelli che voltano le spalle a tutto e che, al contrario, restituiscono freddezza e giudizio su quanto fatto insieme. La fatica che molti adulti fanno nel vivere questo distacco, rispetto ai facili entusiasmi dei giovani, nasce dal bisogno che loro stessi hanno di essere confermati dai diciottenni come dai ragazzini, dai bimbi come dai genitori. La debolezza di alcuni adulti, infatti, sta tutta nel fascino che provano verso il consenso, quasi che la loro consistenza esistenziale nascesse dall’approvazione del contesto e non dall’esperienza di vita di cui sono portatori.
L’ultimo giorno di scuola, quando i ragazzi piangono perché l’anno o il ciclo scolastico finiscono, la domanda non è se gli studenti si ricorderanno dei prof., ma se l’esperienza fatta ha attecchito nel cuore di qualcuno di loro non come sentimento o esaltazione, bensì come capacità di affrontare la grande battaglia dell’esistenza: quella contro il nulla.
Troppe volte l’affetto sembra poter supplire tutto, senza che emerga mai la domanda se, al di fuori di quell’affetto, gli studenti sarebbero capaci di affrontare la paura, l’indigenza o la morte. Purtroppo, le generazioni arrabbiate e risentite che si affacciano al mondo della vita adulta pare testimonino l’esatto contrario: sono tanti i ragazzi che amano i loro prof., ma sono pochi quelli per cui quell’amore è diventato un giudizio, un’ipotesi con cui stare dinnanzi a tutto.
Il dolore della vita non può essere per il peccato, il dolore deve essere per l’inconsapevolezza cui tanto bene e tanto fare può condannare i più giovani: alcuni adulti vogliono loro talmente bene che sono capaci di sostituirsi a loro in tutto, anche nella libertà, che sono capaci di scambiare l’umore di un periodo – o alcune parole dette per mimesi – per una scelta di vita. L’educatore vero è sempre un impotente, uno che comprende che non può fare niente se non esserci, se non amare, se non pregare. I Padri della Chiesa erano molto infastiditi dai cristiani che si facevano chiamare educatori: per loro era chiaro che il Pedagogo era uno, che nessuna strategia poteva sostituirsi alla forza della Grazia e che loro stessi erano spettatori di miracoli inattesi, di silenzi infiniti, di lacrime inconsolabili.
L’ultimo giorno di scuola non apre il tempo della malinconia o della nostalgia, ma risveglia un altro ultimo giorno, rende evidente come tutti prima o poi ci dovremmo salutare: come dovremmo congedarci da nostro marito o da nostra moglie, dai nostri figli o dai nostri genitori, dalla nostra terra e dai nostri amici. Il tema è tutto lì, il tema è tutto sulla domanda che sorge dalla consapevolezza della fine: chi salverà tutto? Chi può salvare tutto? A che cosa è destinato tutto?
Qualche giorno fa un frate, durante un’intervista alla radio, raccontava di una studentessa che si era rivolta a lui dicendogli: “È stato così bello qua che sarebbe bello se tutto questo continuasse ancora un po’, sarebbe bello se potesse non finire”. E lui, credendo che la ragazza parlasse della scuola, le ha risposto: “Ma ci potremo sempre rivedere”. E lei: “Certo, se a finire fosse la scuola avrebbe ragione, ma lei sa che a finire è la vita. Eppure, io non voglio morire”.
Ecco il punto, ecco la questione: “eppure io non voglio morire, eppure io non voglio finire”. Una domanda così, un dramma così, rimette subito tutto a posto e rimette subito tutti alla distanza giusta da ogni performance e da ogni sentimento. Perché svela a ciascuno che il dono che c’è in ogni fine è la percezione, apparentemente assurda e irrazionale, di una promessa che Qualcuno – a quanto pare – dovrà prima o poi rispettare.
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