È morto ieri mattina alle 9:30 Silvio Berlusconi all’Ospedale San Raffaele, dove è sempre stato curato e assistito dal suo medico personale, Alberto Zangrillo, oltre che circondato dall’affetto dei suoi figli, di suo fratello e dei suoi amici di una vita. Berlusconi era ritornato al San Raffaele venerdì scorso, il 9 giugno. Questa volta l’ex premier era stato ricoverato in degenza ordinaria.
Un bollettino medico parlava di controlli anticipati, ma già previsti, dopo la lunga degenza di 45 giorni, in parte passati in terapia intensiva. L’ultima volta era uscito dal San Raffaele lo scorso 19 maggio. Si era comunque compreso, anche per le voci che circolavano, che il nuovo ricovero era dovuto a serie preoccupazioni per le sue malattie, con cui da tempo conviveva.
La notizia della morte ha fatto subito il giro del mondo, perché, comunque lo si voglia giudicare, Berlusconi ha caratterizzato, in diversi campi, la vita politica italiana degli ultimi 40 anni sotto diversi aspetti. Non si potrà certamente scrivere la storia italiana degli ultimi 40 anni senza fare i conti con quello che è diventato un modo di pensare e di comportamenti, che ha appunto preso il nome di “berlusconismo” e di “antiberlusconismo”. Due vaneologismi che caratterizzano drammaticamente lo stato della politica italiana.
In questo momento si sentono in televisione una serie di analisi, accanto a un doveroso senso di pietà per la scomparsa di un uomo, che sconfinano nell’ipocrisia e nella classica confusione tipica dell’Italia, noto Paese dove sopratutto la memoria storica è considerata quasi come un “delitto” da non commettere mai.
Cerchiamo di dare, per il momento, uno sguardo non troppo viziato dalla faziosità e dalla smemoratezza. Era il 24 marzo 1986 quando il Cavaliere (così lo si chiamava spesso) diventava il ventunesimo presidente della storia del Milan e otteneva una popolarità, oltre ai successi economici, di carattere mondiale. Era già conosciuto come imprenditore edilizio che aveva costruito nel comune di Segrate, uno dei quartieri più belli d’Europa secondo alcuni architetti e urbanisti. La presidenza del Milan fece da volano di popolarità.
Gli interessi di Berlusconi non si limitavano già allora solo al settore edilizio e al calcio. I suoi interessi erano molteplici ed erano destinati a diventare decisivi per la storia italiana sopratutto nella comunicazione televisiva, nella grande editoria. Da qui probabilmente sconfinò, forse per una difesa in parte confusa, l’ingresso in politica a causa della preoccupazione per l’egemonia culturale dalla sinistra italiana, quella di derivazione postcomunista e cattolica di sinistra.
Quando Berlusconi ricordava la sua decisione di impegnarsi in politica ripeteva: “Tutti mi dicevano di non farlo. I miei amici più stretti, i miei collaboratori, la mia famiglia. Erano tutti contrari. Mia madre più di tutti. Mi disse che avrebbero fatto del male a me, ai miei figli, alle mie aziende”. È questo quello che Silvio Berlusconi continuava a dire spesso quando parlava del suo ingresso in politica, ufficialmente deciso per un lungo periodo tra la primavera del 1993 e il gennaio del 1994.
È una versione suffragata da diversi testimoni, ma forse non del tutto veritiera, oppure difficile da spiegare in tutte le sue sfumature o le sue autentiche ragioni.
Inoltre, pensando al “quartier generale” berlusconiano dell’epoca, è difficile immaginare che il cosiddetto “ragazzo tycoon” degli anni del liceo e dell’università – così lo ha soprannominato Alan Friedman in un libro intervista – non avesse l’ultima parola sulle decisioni che intendeva prendere, soprattutto perché aveva compreso che, tra il 1993 e il 1994, si decidevano le sorti della cosiddetta e mai nata (in verità) “seconda repubblica”, dove il peso politico si mescolava inevitabilmente al gioco dei grandi interessi economici.
Ora si parla della “svolta liberale” di Berlusconi. Tesi piuttosto ardita e problematica. Non si considera forse come il panorama politico italiano fu sconvolto da alcune forze ben identificabili con uno studio e una documentazione accurata. E in Italia si poteva solo pensare a una svolta neoliberista familistica, non a una “rivoluzione liberale”; magari con l’appoggio di forze che, per interesse, avevano abbandonato ogni ideologia o ogni ruolo istituzionale.
Con il pandemonio di “Tangentopoli”, a cui anche Berlusconi, con una certa abilità, diede una mano abbastanza decisiva nel momento del cosiddetto “grande cambiamento”, il Cavaliere pensò che si potesse “mandare in pensione” la politica dei partiti tradizionali e non lesinò, in un primo momento soprattutto, addirittura delle lezioni alla “vecchia politica”.
Andiamo comunque con ordine cronologico per contestualizzare ancora di più l’ingresso in politica del Cavaliere. Il primo passo del nuovo impegno arrivò alla fine del 1993, quando improvvisamente il Cavaliere appoggiò, alle elezioni per il sindaco di Roma, Gianfranco Fini, a quell’epoca conosciuto come il “cocco” della signora Almirante, nel ballottaggio contro Francesco Rutelli. Con tutta probabilità, Berlusconi stava già da tempo elaborando strategie per il “dopo Tangentopoli”.
Certo, era stato amico di Bettino Craxi, di tanti democristiani e di esponenti di altre forze politiche che il 6 agosto 1990 approvarono la cosiddetta “legge Mammì”, che prendeva il nome da Oscar Mammì, ministro repubblicano per le Comunicazioni, che di fatto toglieva il monopolio televisivo sul territorio nazionale alla Rai. Così Berlusconi promuoveva la televisione commerciale e faceva nascere in breve tempo le tre reti generaliste di Fininvest diventata poi Mediaset. Forse Berlusconi ringraziava e salutava.
La legge Mammì, varata nel sesto Governo Andreotti, è anche quella che delinea la grande spaccatura della sinistra democristiana che precorre i tempi del dopo “Tangentopoli”. In quella circostanza sono cinque i ministri democristiani che si dimettono: Mino Martinazzoli, Sergio Mattarella, Riccardo Misasi, Calogero Mannino e Carlo Fracanzani. Berlusconi pensa sopratutto a difendere il suo nuovo grandissimo business.
La televisione commerciale, tra dibattiti e polemiche, comincia a prendere il largo ed Enrico Mentana, sedicente ex anarchico, soprannominato da Giampaolo Pansa “mitraglia”, diventa direttore del Tg5 il 13 gennaio 1992. Era passato diverso tempo da quando, con la costruzione di “Milano 2”, era nata Telemilano 58, dove pure erano arrivate vecchie star della tv come Mike Bongiorno.
In realtà, l’inizio degli anni Novanta era il momento non solo di una crisi politica, ma di una crisi epocale di sistema della classe dirigente, anche di quella imprenditoriale dei “capitani di sventura”, che il Cavaliere prima voleva imitare e poi sostituire nel grande gioco del potere economico e finanziario.
Berlusconi annusa la possibilità di entrare nel giro del vecchio capitalismo familistico italiano, che è sempre stato “amico-nemico” del potere politico, impossessandosi sopratutto dell’apparato comunicativo, tra stampa scritta e televisione. Così arriva “Il Giornale” di Montanelli e poi le grandi reti televisive.
C’è un intreccio di debiti, favori incrociati, pasticci e guerre di ogni tipo. Berlusconi gioca una partita che vuole arrivare non solo a condizionare la politica, che a lui in fondo, probabilmente, interessa poco, ma addirittura vuole sostituirla.
Se si va a vedere come si era comportato Berlusconi durante la “messa sotto accusa” dei partiti, compresi gli amici, si vede anche una serie di mosse contraddittorie, sia con dichiarazioni garantiste, ma anche con trasmissioni come quella di Gianfranco Funari che in Fininvest fa “Mezzogiorno italiano”, dove invita sempre “il dottor Di Pietro ad andare avanti”.
Intanto, fuori dal tribunale di Milano, c’è la perenne voce di Paolo Brosio, che riferisce “parola per parola” tutto quello che dice il pool di “Mani pulite” e che riversa subito nel telegiornale di Rete 4 di Emilio Fede.
Insomma con una botta di qua e una botta di là, tra la prima e la cosiddetta seconda repubblica, Silvio Berlusconi appaga probabilmente tutto il suo narcisismo (in fondo e forse in parte anche per il bene dell’Italia) e inventa il primo vero cosiddetto centrodestra italiano, che si oppone a un “nipotino” di Breznev, senza più ideologia e con un partito che cambia nome dopo ogni stagione, cioè ad Achille Occhetto, l’ex comunista che ha pure il buon gusto di definire la sua coalizione di centrosinistra nel marzo del 1994 “una macchina da guerra”.
E così Berlusconi vince, secondo un motto sempre caro agli italiani “meno tasse per tutti”, un ritornello che sarà scambiato per una visione politica di lungo raggio.
A questo punto, i tanti giochi che si facevano sia sulla destra che sulla sinistra (e che Berlusconi ha sfruttato con abilità) saltano per aria. L’azione della magistratura, i vecchi poteri imprenditoriali indeboliti ma sempre presenti, qualche mano straniera che vuole “saccheggiare” l’industria italiana, il sistema delle tangenti sempre tollerato in modo nascosto e “l’oro di Mosca” dimenticato, non prevedevano una svolta “berlusconiana”, di centrodestra o “liberale”, in termini piuttosto vaghi.
È a questo punto che Berlusconi, mentre offre appunto ministeri pure a Di Pietro e Davigo, scopre che la magistratura, uno dei protagonisti del cambiamento radicale e della soppressione della politica, lo ha messo nel mirino. Il Cavaliere viene centrato da un avviso di garanzia che in quei tempi, dopo tre mesi a Palazzo Chigi, era come una condanna in Cassazione.
Passa poco tempo e Berlusconi deve lasciare la presidenza del Consiglio a Lamberto Dini, nel gennaio 1995. Poi si va a nuove elezioni nel 1996 e si afferma il centrosinistra, prima con il governo di Romano Prodi e poi con quello di Massimo D’Alema. Comincia il “calvario italiano”, emergono tutte le contraddizioni che pure ci portano in Europa con un cambio lira-euro che mette i brividi alla schiena.
Berlusconi ritorna nel 2001 a Palazzo Chigi e governa per quattro anni. Niente di nuovo sotto il sole. Torna Prodi nel 2006, ma cade per errori di calcolo matematico in Parlamento e quindi c’è di nuovo Berlusconi che fa la sua terza apparizione. Infine si arriva al quarto governo che va dal maggio del 2008 al novembre del 2011.
Un’altalena, un parapiglia di andate e ritorni con un finale che segna l’era dei “governi tecnici”, quelli che nei Paesi democratici sono del tutto sconosciuti.
Piccola annotazione, si fa per dire, del lascito di tutta questa alternanza governativa: l’Italia si impoverisce, i salari scendono del 2%, mentre in Spagna salgono del 6%, in Francia e in Germania del 30%. Un Paese più povero, esperimenti politici incredibili e il personaggio Berlusconi che paga il suo interessamento alla politica, che mastica poco nonostante i consensi, con una serie di procedimenti giudiziari, ben 36 processi, e una condanna per frode fiscale che nel 2013 lo fa decadere da senatore. Una autentica persecuzione giudiziaria (è morto pure da imputato nel processo Ruby!) che in fondo spiega le contraddizioni “complesse”, per così dire, di quello che è stato il rovesciamento della democrazia italiana.
Non c’è dubbio quindi che Berlusconi sia stato un personaggio che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni della vita politica italiana, ma è difficile, nel marasma di questi anni, dove l’Italia è stata inghiottita da una continua crisi politica e da un’autentica delegittimazione della politica, non vedere nel Cavaliere una figura che ha vagato a vista, senza una visione precisa, nella grande crisi italiana, così come l’opposizione di sinistra e i vari “guru” che sono comprasi in questi anni.
Per dirla in controtendenza, fuori da ogni retorica ipocrita, pur con grande rispetto umano per il Cavaliere, il paragone tra crisi politica italiana epocale e Berlusconi è un parallelo che si intreccia ai tanti interessi contrari a un autentico sviluppo italiano.
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