Forse era scritto fin dapprincipio che un tycoon inventatosi leader politico per caso e necessità e divenuto all’improvviso Premier di un Paese del G7 lasciasse un’eredità contrastata e incompiuta. Molto prima e molto più di Donald Trump – unica ma rilevante imitazione nella storia occidentale contemporanea -, Silvio Berlusconi ha portato dentro la grande politica sia il talento, sia lo stile larger than life del grande imprenditore (perché il Cavaliere lo è stato veramente, anzitutto un innovatore internazionale nel settore della tv pre-digitale). E se Trump – più affarista che capo d’azienda – sembra condividere decenni dopo tutte le asprezze e le ambiguità dei confronti con “Stati profondi” ed establishment finanziari che hanno intessuto gli ultimi trent’anni di Berlusconi, è vero che il trumpismo potrebbe essere già consegnato agli annali come un singolo quadriennio-meteora alla Casa Bianca, culminato in un tentativo di colpo di Stato.
Il berlusconismo – protrattosi per un terzo della storia repubblicana del Paese e concluso dal Cavaliere come Senatore eletto in carica, 29 anni dopo la vittoria del 1994 – non ha invece mai sfidato la democrazia, neppure nel difficilissimo passaggio-abbandono del 2011. E sembra destinato a interrogare a lungo l’Italia e non solo.
In queste settimane Angela Merkel – super-Cancelliera onoraria d’Europa, agli antipodi dell’antropologia politico-mediatica del Cavaliere – sta precipitando nella damnatio memoriae meno di due anni dopo l’uscita di scena, oscurata da una delle zone d’ombra che hanno avvolto lo stesso Berlusconi: i rapporti con la Russia di Vladimir Putin. L’ex Presidente francese Nicolas Sarkozy – non estraneo al terremoto italiano del 2011 – è agli arresti domiciliari per le precedenti relazioni pericolose con la Libia di Gheddafi: il raìs a lungo chiacchierato anche a proposito del Cavaliere, ma infine eliminato da un'”operazione militare speciale” della Nato. Sarkozy avrebbe voluto e dovuto trasformare la Francia, con approccio moderato, in un laboratorio trainante di liberaldemocrazia avanzata nel ventunesimo secolo. Non c’è riuscito ed è stato presto dimenticato. E non ci sta riuscendo il suo successore Emmanuel Macron.
Neppure Berlusconi è riuscito a portare davvero l’Italia oltre la caduta epocale del Muro, oltre lo strappo tutto interno di Mani Pulite, in una vera “Seconda Repubblica”, fuori dalle ideologie che avevano dominato i primi quarant’anni di democrazia costituzionale. Però è sicuramente parziale e ingeneroso chi lo accusa di non averci mai provato: soprattutto nella sua fase ascendente, subito molto contrastata, forse dai poteri economici dell’epoca più che dalla magistratura. Tanto che una delle domande (non) retoriche utili a ragionare nel giorno della scomparsa del Cavaliere è: quale Azienda-Italia sarebbe uscita da una stagione privatizzatoria condotta da Berlusconi e non da Romano Prodi?
Una prima risposta è certamente: Berlusconi non ha avuto il coraggio di troncare da subito il conflitto d’interesse strutturale con le sue diverse attività d’impresa (dai media alla finanza), per impegnarsi come uomo di Stato a tutto tondo nella ricostruzione del Sistema-Paese in Europa e nella globalizzazione, attraverso un ridisegno moderno delle relazioni fra economia e istituzioni. Una risposta accessoria è che il Cavaliere non si è mai sentito veramente investito di una missione politica: neppure quando nel 2008 ha ricevuto un ultimo, schiacciante mandato elettorale. Per lui – che pure non ha mai avuto bisogno di mettersi al servizio di Putin come l’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder – una relazione esemplare come quella con lo zar del Cremlino era irresistibilmente attratta dalla sfera degli affari più che da quella politico-istituzionale. Ma anche quest’evidenza inopinabile – la costante prevalenza del Berlusconi imprenditore sull’uomo di Stato, dell’azione politica come “taxi” dell’economia, non come sintesi e guida di una grande società – sembra ancora riduttiva rispetto alle istanze della “rivoluzione liberale mancata”: che sarebbe un errore considerare un’eredità puramente negativa e non invece un lascito aperto.
La questione tuttora più provocante – riconosciuta perfino dagli avversari più irriducibili – è che Berlusconi ha svegliato in milioni di italiani identità e pulsioni (“liberali”) prima dormienti. E – certamente – non è stato solo un Grande Fratello dell’Italia in stile “Drive-in”. È probabile che Giuseppe De Rita rifiuti questa lettura, ma anche il Cavaliere si è fatto strada nelle scie profonde e corali dell’economia sommersa svelata dal Censis. Assieme a figure potenti come Leonardo Del Vecchio e Bernardo Caprotti – oltreché naturalmente Ennio Doris – Berlusconi ha condiviso con centinaia di migliaia di connazionali la sfida esistenziale di fare impresa “di prima generazione”, mettendosi in gioco in un’Italia in cui la parola “impresa” era ed è tuttora sconosciuta alla Costituzione. In cui il successo imprenditoriale (economico) non faceva parte della civiltà nazionale. In cui lo Stato era ancora padrone – spesso monopolista – di vaste aree dell’economia, ancora mista all’interno e poco aperta all’esterno.
Il paradosso – non infrequente nella storia – ha voluto che Berlusconi abbia raccolto per tre volte (e mezzo) in vent’anni un consenso elettorale maggioritario dai “nuovi italiani” che lo riconoscevano come loro leader sul campo; ma non sia poi riuscito, il Cavaliere, a ripagarli con le riforme strutturali – non solo fiscali – che loro pretendevano perché ne avevano bisogno. Ma profondamente “paradossale” è stata tout court la vicenda del fondatore di Telemilano che prima batte sul campo – inglobandoli uno dopo l’altro – tutti i blasonati editori-pionieri della “tv libera” in Italia; poi tuttavia pietrifica il sistema dei media in un oligopolio “sovrano” e semipubblico, oggi obsoleto.
Il Cavaliere più autentico resta forse quello che – scomparso da poco l’avvocato Agnelli – riceve ad Arcore i vertici della Fiat in profonda crisi. E si concede battute taglienti: se non fossi Premier mi prenderei io la briga di rilanciare il vostro gruppo. Vi sono pochi dubbi che ci sarebbe riuscito (così come il Milan ha vinto più Champions League della Juventus), laddove l’imprenditore-manager Berlusconi non si riteneva – e verosimilmente non era – inferiore a nessuno. Ma il lungo “contratto con gli italiani” del Cavaliere non prevedeva solo una lunga serie di elezioni da vincere come finali di coppa; di duelli con gli arbitri e di derby muscolari con altri tycoon.
Quel contratto – essenzialmente finalizzato allo sviluppo della democrazia di mercato italiana – rimane ancora irrealizzato: anche se il sistema-Paese nel trentennio berlusconiano non è certo rimasto immobile. Quel contratto resta ancora sul tavolo. A onorarlo ci ha provato da ultimo – senza riuscirci – Matteo Renzi: Premier di centrosinistra, non eletto e soccorso dai voti parlamentari del Cavaliere.
L’eredità politica di Berlusconi è quel contratto da impugnare: certamente per cambiarlo, per non tenerlo più all’infinito sul tavolo di palazzo Chigi. Ma anche con il (suo) coraggio di chiedere le firme dei milioni di elettori italiani sotto alla propria; e con la forza di raccoglierle in elezioni democratiche.
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