Silvio Berlusconi ha procurato, a un docente espatriato negli Stati Uniti ma in costante contatto con l’Italia, gli anni più interessanti della sua vita (che erano anche gli anni della sua giovane maturità) fra Italia e America. La prima volta in cui vide e ascoltò Berlusconi, nel momento iniziale delle grandi vittorie di questo politico, fu per dieci minuti, alla televisione Usa.
Costui aveva già adottato (per deformazione professionale) l’unico modo per lui possibile (per lui, cioè, non politologo o politofilo) di seguire i discorsi politici: fare attenzione al tono e al contesto piuttosto che alle parole (C’est le ton qui fait la chanson). Ma anche così, ci mise un po’ di tempo a mettere insieme quello che lo aveva colpito: la voce, prima di tutto, con una dizione gradevole e bene impostata, e un’enunciazione elegante; e poi l’accento milanese (e colto-borghese). Piccolezze, certo: ma egli si rese conto che era la prima volta nella sua esperienza che ascoltava un uomo politico con quella voce e quell’accento e ciò doveva pur significare qualcosa, perfino per i suoi amici politologi.
La simpatia berlusconiana costò abbastanza cara a quel docente espatriato: la perdita di amicizie con colleghi universitari (compreso un importante studioso italiano di passaggio in quell’università statunitense) e varie difficoltà con i suoi dottorandi: quelli italiani, che ritenevano di riscattare con l’odio antiberlusconiano un ruolo di emarginazione, da profughi di un regime di sinistra che aveva reso loro impossibile la vita universitaria in Italia; e i dottorandi americani, che tendevano a imitare gli atteggiamenti più alla moda dei loro colleghi italiani. Questo docente, che era sinceramente affezionato ai suoi studenti e che se ne sentiva ricambiato, imparò presto il tipo di autocensura che poi trovò essere dominante in Italia: evitare ogni menzione di B. (come scrivevano i meno spiritosi dei suoi avversari politici).
Ma infine egli non volle più tacere e si permise, in un discorsetto di occasione agli studenti, di menzionare cautamente l’opportunità di mantenere un minimo di equilibrio politico di fronte a Berlusconi. Il suo breve e pacato discorso fu accolto da un silenzio di gelo, senza gli applausi di cortesia che negli Stati Uniti non si negano mai a nessuno. Più tardi, una delle dottorande (attualmente cattedratica in una prestigiosa università californiana) gli disse con aria magnanima che avrebbe “steso un velo pietoso” su quell’episodio; e un dottorando, dopo qualche esitazione, gli disse che era disposto a perdonarlo.
È già apparsa una parola importante, che mette fine all’aneddotica e introduce all’analisi: la parola “odio”. L’odio antiberlusconiano, che i suoi odiatori (oggi pronti ipocritamente a far finta di nulla) pretendevano allora di spiegare con il bla-bla-bla economico e giuridico e con il solito politichese, era troppo profondo per potere essere giustificato in questo modo, e necessita di strumenti psicologici. Qui ci si limita semplicemente a una constatazione del fenomeno e a un parallelo importante per la politica internazionale oggi. L’odio anti-Berlusconi ha le stesse caratteristiche dell’odio anti-Trump; e come tutte le forme di odio, offusca la ragione (altro che ragionamenti politici!).
Ecco uno dei tanti sviluppi che, smentendo l’atteggiamento disfattistico di cui gli italiani sono specialisti, appare come una profetica anticipazione italiana di fenomeni che sono apparsi ben più tardi nella politica americana. Peccato che si tratti di un’anticipazione abbastanza triste, come sono tutti i fenomeni dell’odio.
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