La guerra scatenata dalla aggressione russa all’Ucraina è un evento che segna una svolta nella politica mondiale, una vera e propria catastrofe che finisce per accelerare e mettere in risalto cambiamenti che da anni stavano accadendo, di cui adesso anche una opinione pubblica poco attenta alle questioni internazionali deve prendere atto. Cambiamenti che hanno a che fare con la sicurezza globale intesa a tutto tondo, che comprende tutti gli aspetti della convivenza tra gli Stati e i popoli.
Due fatti emergono con evidenza, l’apparente nuova politica economica degli Stati Uniti sotto la presidenza Biden e la forza irruenta dei Brics con il ruolo predominante della Cina. I due gruppi di eventi sono collocati, si intersecano, ma diciamo subito, a scanso di equivoci, che non si tratta di un gioco a somma zero; non stiamo assistendo ad uno scontro tra squadre, da una parte gli Usa e i loro alleati, dall’altra la Cina e il resto dei Paesi. Il mondo è troppo complesso per le semplificazioni ideologiche e per il tifo sguaiato.
Questa guerra ha rappresentato una novità da un punto di vista delle armi usate, non solo di quelle che uccidono direttamente, ma anche di quelle indirette. E infatti nel mondo anglosassone si usa una espressione, “weaponisation of everything”, dal libro di Mark Galeotti, celebre analista di cose russe a cui si deve la diffusione anche del termine “guerra ibrida” relativa alla così detta “dottrina Gerasimov” (la traduzione in italiano però non rende: “la trasformazione in armi di ogni cosa”).
E infatti assistiamo all’uso massiccio dell’economia come arma. A partire dalle sanzioni economiche anche verso privati che colpiscono le esportazioni di petrolio e di gas, l’esclusione di 10 banche russe e a quattro bielorusse dallo Swift, il servizio di messaggistica per lo scambio di informazioni tra banche che collega più di 11mila entità in tutto il mondo, blocco che impedisce di effettuare o ricevere pagamenti internazionali; soprattutto gli Usa e i Paesi dell’Ue hanno congelato le riserve in valuta straniera di Mosca. Nel febbraio 2022 le riserve internazionali della Russia, più cioè della metà delle stesse, ammontavano a 643 miliardi di dollari (579 miliardi di euro). La dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo ha costretto inoltre l’amministrazione americana a rivolgere l’attenzione verso il funzionamento di linee di approvvigionamento e di produzione, cercando di internalizzarle il più possibile e di organizzarle tra Paesi amici.
E subito dopo è arrivata la guerra dei semiconduttori, che si aggiunge alla politica di restrizione contro Huawei, e infine la legge sugli aiuti per il passaggio all’economia verde, l’Inflation Reduction Act (Ira), che mette a disposizione 400 miliardi di dollari dal primo gennaio 2023 e prevede un credito d’imposta di 7.500 dollari per l’acquisto di un’auto elettrica nuova, e di 4mila dollari per una usata.
Spettatori attoniti i liberal nostrani, che sembrano non svegliarsi da un sogno di globalizzazione idilliaca, con gli Stati Uniti leader con finalmente un buon democratico come presidente al posto dell’impresentabile e un po’ golpista Trump. Ma le cose non stanno così. L’ordine del mondo basato sulla libertà di commercio, caposaldo della politica anglosassone dalla nascita dell’Impero inglese, è una parte della verità. Guerre commerciali, politiche tariffarie, dazi doganali, sanzioni mirate, mal sopportazione degli arbitrati del Wto non sono stati una prerogativa di Trump.
E a dir la verità, guardando la storia degli Stati Uniti, l’apertura del commercio si è sempre accompagnata a politiche con al centro la produzione nazionale di beni e servizi: difesa e sviluppo della politica industriale, come sempre, fin da Alexander Hamilton, anche questa volta in tempi di green economy e di duro confronto con la Cina, scelte che comportano l’intervento dello Stato in economia e protezionismo. Politica economica attiva, aiuti, protezione, difesa del mercato americano, delle esportazioni e del commercio. Le scelte strategiche, attuate dall’amministrazione Biden e ribadite ad aprile da Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza del presidente, sono chiare e disegnano un quadro di politica economica coerente: sostegno della classe media, contrasto al cambiamento climatico, recupero del vantaggio tecnologico con la Cina. Il tutto all’insegna della difesa della sicurezza nazionale e del rafforzamento della coesione sociale del Paese.
Come sempre ogni scelta ha dei costi e dei rischi, in questo caso rappresentati dalle frizioni non indifferenti con gli alleati europei che si trovano tagliati fuori dal mercato americano e non in grado di restare al passo con quel livello di finanziamenti pubblici. Allo stesso tempo, la sfida portata avanti dalla Cina e dai Brics (che rappresentano il 31,59% del prodotto lordo mondiale contro il 30,39% del G7), compreso l’attacco al dollaro, è certo una novità mai apparsa sulla scena globale, dominata negli ultimi duecento anni prima dall’Inghilterra e poi dagli Stati Uniti.
Solo il tempo ci dirà se il modello cinese, un ircocervo composto da capitalismo di Stato e privato governato da un partito comunista a cui rispondono direttamente le forze armate (non allo Stato), troverà un modus vivendi pacifico anche se conflittuale con gli ancor forti Stati Uniti.
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