Erasmus non è soltanto il nome originario del celebre umanista, poliglotta e cosmopolita, nato a Rotterdam nel 1466, ma anche l’acronimo di un progetto dell’Unione Europea (EuRopean community Action Scheme for the Mobility of University Students) a sostegno della mobilità di docenti e studenti, finalizzato alla reciproca conoscenza, all’incremento dei valori democratici, alla valorizzazione dell’inclusività.
Dopo l’emergenza pandemica, gli stage rimasti nel cassetto sono stati rispolverati e si è tornato a viaggiare, come è capitato a me e ai colleghi del liceo in cui insegno. Di certo il Covid non è trascorso senza lasciare ferite indelebili, mostrando limiti e fragilità già presenti nel nostro sistema scolastico, adesso maggiormente evidenti, talvolta con drammatici risvolti: apatia, demotivazione e affaticamento nello studio, discontinuità nella frequenza, fino alla dispersione (dropout).
Affrontando il problema tra colleghi, alcuni tendono a minimizzare il fenomeno, altri a ritenerlo passeggero o, al contrario, a tratteggiarlo a tinte fosche. Per quanto mi riguarda, le esperienze vissute all’estero possono favorire un giudizio più equilibrato, confrontando metodologie e modelli organizzativi. Nello scorso mese di maggio ho visitato una scuola a Helsinki, capitale della Finlandia, che vanta i primi posti nelle graduatorie di merito per prevenzione del dropout e per successo formativo, come rilevabile dall’Ocse-Pisa, mentre l’Italia si posiziona al 35esimo posto (dati ufficiali del 2018), praticamente in coda a tutti i Paesi europei ad avanzata indUstrializzazione.
Chiariamo subito: non sostengo che la scuola italiana o i suoi insegnanti siano di pessima qualità. Al contrario, il valore dei nostri ricercatori universitari attesta la bontà dei loro studi; si tratta tuttavia di una scuola ancora per pochi, con un sistema ancora profondamente selettivo che spesso lascia ai margini chi, non raggiungendo gli standard prefissati, è consegnato – come accade nel Meridione – ad un futuro nebuloso. Bisogna aggiungere che l’estrema volatilità dell’odierno mercato del lavoro, con professioni che mutano rapidamente sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, impone un’attenta considerazione di quelle competenze trasversali – creatività, carattere, capacità d’intrapresa e di collaborazione – che nel futuro conteranno quanto o di più di un cospicuo bagaglio di conoscenze.
È vero che la scuola italiana sta facendo grandi sforzi per innovarsi con nuove metodologie didattiche, dalla flipped classroom (la classe rovesciata), al debate, attingendo quindi alla pedagogia dello student-centred learning – l’apprendimento basato sulla centralità dell’allievo e sul suo contributo attivo a discapito della desueta lezione frontale, dove l’insegnante recita il ruolo d’assoluto protagonista. Tuttavia il tentativo si è svolto finora in modo “additivo”, aggiungendo di anno in anno qualcosa di nuovo alla vecchia impalcatura “gentiliana”, mai definitivamente messa in soffitta.
Si è giunti così ad un sistema di estrema complessità, dove alla tradizionale dozzina di discipline già impartite si aggiungono progetti pomeridiani, certificazioni linguistiche, alternanza scuola lavoro (l’attuale Pcto), educazione civica, uscite didattiche, stage all’estero e… chi più ne ha, più ne metta! Tranne poi verificare impreparazioni, assenze e tante altre espressioni del disagio studentesco a cui ho precedentemente accennato. La recente ristampa del saggio di A. Calvani e R. Trinchero (Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene, Carocci 2021) conforta la mia riflessione, a proposito della “teoria del carico cognitivo” affermando che “gran parte delle difficoltà di apprendimento sono dipendenti dalla limitatezza (della memoria di lavoro, ndr) e dalle condizioni di sovraccarico a cui è facilmente sottoposta”. In altri termini non è detto che studiando molto si ricordi tutto e bene. L’idea propugnata da certi studiosi di affrontare la complessità del mondo contemporaneo, facendo studiare un po’ di tutto, in modo “reticolare” (come se al posto del cervello potessimo impiantare un browser collegato a internet), non è quindi confermata dai dati di fatto.
Quali suggerimenti allora provengono dalle scuole europee? Provo ad elencarne alcune, sperando di suscitare un ulteriore dibattito: innanzitutto non si superano le 6 lezioni al giorno, ciascuna della durata di 45 minuti, con mezz’ora di ricreazione a metà mattinata e una pausa pranzo verso mezzogiorno; si da molto spazio alle attività fisiche, ricreative, al lavoro manuale e alla socializzazione; non si studiano più di 5-6 materie alla settimana e più di tre al giorno; non ci sono classi ma corsi, della durata bimestrale, a cui lo studente si iscrive anche attuando opzioni personali, come nelle nostre università; la valutazione è trasparente e concordata con studenti e famiglie; si studia prevalentemente a scuola; i progetti extracurricolari non sono frutto del protagonismo individuale di alcuni docenti, ma sono concordati sulla base delle priorità e vengono svolti in determinati periodi dell’anno interrompendo il regolare orario scolastico.
Ovviamente qualcuno obietterà dicendo che in Italia non ci sono strutture adeguate, che il percorso di studi è radicalmente diverso, che la nostra tradizione è profondamente differente. Faccio solo notare che la Finlandia non è un’eccezione: lo siamo noi rispetto a tutti gli altri Paesi europei, compresa la Spagna, nostra gemella non solo per distanza dall’Equatore. Omologarci forzatamente ad un modello continentale non è opportuno; abbiamo anche una nostra identità da tutelare, ma sarebbe altrettanto miope non accettare il confronto e ostinarci a perpetuare le nostre abitudini senza cogliere nel disagio dei nostri studenti una reale richiesta d’aiuto.
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