Il punto di partenza è di quelli che si possono scrivere nella lista dei successi tricolore. L’export italiano dell’agroalimentare ha chiuso il 2022 sviluppando 58,8 miliardi di euro, sulla spinta di un incremento del 15,3%, la crescita più ampia registrata a partire dal 2000. A trainarla sono in particolare alcune categorie nella quali il nostro Paese eccelle: l’Italia è infatti il primo esportatore nel mondo di polpe e pelati di pomodoro (76,7% sul totale dell’export mondiale), pasta (48,4%), castagne sgusciate (32,6%), passate e concentrati di pomodoro (24,2% del mercato), e si piazza al secondo posto per vino, formaggi freschi, kiwi, liquori, mele e nocciole.
Va detto però che non tutto è oro quel che luccica. Il Bel Paese si colloca infatti soltanto al 5° posto in Europa. Molto meglio di noi fa l’export tedesco, che vale quasi 25 miliardi in più del nostro, e quello francese, che macina 20 miliardi in più. Senza contare che in Italia l’agroalimentare vale il 9,4% delle esportazioni totali a fronte del 13,5% della Francia e del 17% della Spagna.
Una buona notizia di cui prendere nota tuttavia c’è: i margini per mettere a terra nuove accelerazioni non mancano. Lo affermano le evidenze emerse dal rapporto “Italian sounding: quanto vale e come trasformarlo in export made in Italy” realizzato da The European House – Ambrosetti e ISMEA e presentato nella seconda giornata del 7° forum “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni”.
Il rapporto ha cercato di fare luce su un ingombrante convitato di pietra per le esportazioni alimentari italiane: l’utilizzo ingannevole di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari che italiani non solo affatto.
Lo studio ha stimato in 91 miliardi di euro il valore del fenomeno, circoscrivendo poi a 60 miliardi la quota riferibile ai soli consumatori stranieri che realmente desiderano acquistare prodotti Made in Italy e che sono ingannati da queste azioni di marketing. Sessanta miliardi che quindi potrebbero essere concreto e possibile terreno di caccia per la nostra food industry. Conquistarli, però, inutile nasconderlo, non si presenta affatto una missione semplice. Lo dimostra lo stesso rapporto di Ambrosetti che ha provato a calcolare i tempi nei quali potrebbe essere possibile riconquistare gli spazi occupati dalle imitazioni dei prodotti tipici italiani. E ha tracciato tre possibili scenari.
Il primo prevede un raddoppio del tasso di crescita degli investimenti nel settore rispetto a quello attuale e indica in 27 anni l’arco temporale necessario a convertire l’Italian sounding in nuovo fatturato delle imprese italiane. Il secondo prospetta, invece, non solo il raddoppio del tasso crescita degli investimenti, ma anche quello della loro produttività grazie all’azione combinata di innovazione e digitalizzazione. E in questo caso, l’orizzonte si ferma, si fa per dire, a 15 anni. Infine, il terzo scenario aggiunge agli elementi già descritti anche l’impulso dei fondi del Pnrr, una mossa che dovrebbe consentire di centrare l’obiettivo entro 11 anni.
Nella migliore delle ipotesi, quindi, il recupero richiederà più di un decennio. Sempre a condizione di agire efficacemente su tutte le leve a disposizione.
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